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Anno: 2016

Come lo stress influenza la tua salute

Come lo stress influenza la tua salute

Questo articolo è una traduzione realizzata da Elena Grilli di una risorsa messa a disposizione da APA, American Psychological Association.

Stress: Tutti l’abbiamo provato. A volte lo stress può essere una forza positiva, che ci motiva a fare bene in una performance al pianoforte o in un colloquio di lavoro. Ma spesso – come quando siamo imbottigliati nel traffico – è una forza negativa. Se si sperimenta stress per un periodo di tempo prolungato, può divenire cronico, a meno che non si decida di correre ai ripari.

UNA REAZIONE FISIOLOGICA

Vi siete mai trovati con le mani sudate ad un primo appuntamento o col cuore in gola guardando un film dell’orrore? Se sì, allora siete in grado di sperimentare stress nella mente e nel corpo.

Questa risposta automatica si è sviluppata nei nostri antenati come modo per proteggersi dai predatori e altre minacce. Di fronte al pericolo, il corpo ingrana la marcia: viene inondato da ormoni che accelerano il battito cardiaco e aumentano la pressione sanguigna. Per prepararsi ad affrontare la situazione, il corpo si attiva.

Oggi non corriamo più il pericolo di essere divorati, ma sicuramente ci confrontiamo con innumerevoli sfide ogni giorno (come rispettare scadenze, pagare i conti e destreggiarsi coi figli) che fanno reagire il nostro corpo esattamente allo stesso modo. Come conseguenza, il nostro naturale sistema di allarme – la risposta “attacco o fuga” – può essere e rimanere attivato. E questo può avere serie conseguenze sulla nostra salute.

FOCOLAI DI TENSIONE

Anche stress minori e di breve durata possono avere un impatto. Potremmo avere il mal di stomaco prima di una presentazione, ad esempio. Stress più acuti, legati a un evento come un terremoto o un attacco terroristico, hanno naturalmente un impatto molto maggiore.

Diversi studi hanno evidenziato come questi improvvisi stress – in particolare se collegati con l’emozione della rabbia – possono innescare un attacco cardiaco, provocare aritimie e perfino condurre alla morte. Questo accade fondamentalmente a persone che hanno già un disturbo cardiaco, tuttavia alcune persone non sanno di avere un problema finché uno stress acuto non causa l’infarto o altri problemi.

STRESS ACUTO

Quando lo stress inizia ad interferire con la nostra vita quotidiana per un periodo prolungato diventa anche più pericoloso. Maggiore è la durata, peggiore è la ricaduta per la salute. Si può sperimentare, ad esempio, affaticamento, difficoltà di concentrazione oppure irritabilità immotivata. Lo stress cronico causa inoltre un costante logorio al nostro corpo.

Lo stress può peggiorare problemi di salute pre-esistenti. In uno studio, ad esempio, circa la metà dei soggetti ha ridotto la gravità dei mal di testa cronici di cui soffriva dopo aver appreso modalità per arrestare la tendenza a catastrofizzare e a farsi sistematicamente pensieri negativi sul dolore, tendenza che per l’appunto produce stress. Lo stress cronico può inoltre causare malattia, sia per i cambiamenti che si producono nel corpo, sia per l’incremento di comportamenti quali il fumo o l’alimentazione eccessiva o altre cattive abitudini che le persone utilizzano per fronteggiare lo stress.

Lo sforzo lavorativo – alte richieste insieme a bassa autonomia decisionale – è associato a un più elevato rischio di disturbi coronarici. Altre forme di stress cronico, come la depressione e un basso livello di sostegno sociale, sono inoltre implicate in un più alto rischio cardiovascolare. E una volta che si è malati, lo stress può rendere più difficoltosa la guarigione. Un’analisi di studi passati, ad esempio, suggerisce che i pazienti cardiaci affetti dalla cosiddetta personalità “Tipo D” – caratterizzata da stress cronico – deve far fronte ad una più alta probabilità di prognosi negativa.

COSA SI PUÒ FARE

Ridurre i livelli di stress può non solo farci sentire meglio qui e ora, ma protegge anche la nostra salute a lungo termine.

In uno studio, i ricercatori hanno esaminato l’associazione tra “affettività positiva” – sentimenti come felicità, gioia, contentezza ed entusiasmo – e sviluppo di malattie coronariche nell’arco di un decennio. Lo studio ha trovato che per ogni incremento di un punto nell’affettività positiva su una scala da 1 a 5, la percentuale di malattie cardiache precipitava del 22%.

Lo studio non dimostra che aumentare l’affettività positiva diminuisce il rischio cardiovascolare, ma i ricercatori raccomandano comunque di ritagliarsi un po’ di tempo tutti i giorni per attività piacevoli.

Di seguito altre strategie per ridurre lo stress.

Identificare la causa dello stress. Monitora lo stato d’animo lungo tutta la giornata. Se ti senti stressato, scrivi la causa, i pensieri e l’emozione corrispondente. Una volta che sai cosa ti disturba, pensa a un modo per gestirlo. Questo potrebbe significare avere aspettative più ragionevoli su di sé e sugli altri, oppure chiedere aiuto per le responsabilità domestiche, attività di lavoro o altri compiti. Fai un elenco dei tuoi impegni, valuta le priorità e poi elimina ogni compito che non sia assolutamente essenziale.

Costruisci relazioni solide. Le relazioni possono essere una fonte di stress. La ricerca ha mostrato che le reazioni negative e ostili del proprio coniuge determinano cambiamenti immediati negli ormoni sensibili allo stress. D’altro canto le relazioni posso servire da valvola di sfogo. Rivolgiti a familiari o amici intimi e comunica loro che stai passando un periodo duro. Le persone possono offrire aiuto pratico e supporto, idee utili o anche semplicemente una prospettiva diversa da cui partire per contrastare le cause dello stress, qualunque esse siano.

Quando sei arrabbiato, allontanati. Prima di reagire, prendi tempo per riordinare le idee contando fino a 10. Poi riconsidera la questione.

Passeggiare o altre attività fisiche posso aiutare a liberarsi di emozioni negative. L’esercizio fisico aumenta la produzione di endorfine, il propulsore naturale del tuo umore. Impegnati in una passeggiata al giorno o altre forme di esercizio – un piccolo passo che può fare una grande differenza nel ridurre i livelli di stress.

Riposa la tua mente. Secondo l’indagine del 2012 dell’A.P.A., lo stress causa insonnia al 40% degli adulti. Per garantire un sonno di sette-otto ore come raccomandato, riduci la caffeina, elimina le distrazioni come la televisione o il computer dalla camera da letto e vai a dormire sempre alla stessa ora. La ricerca indica che attività come lo yoga o esercizi di rilassamento muscolare non solo aiutano a ridurre lo stress, ma aiutano anche il funzionamento del sistema immunitario.

Fatti aiutare. Se continui a sentirti sopraffatto, chiedi una consulenza psicologica al fine di apprendere modalità efficaci di gestione dello stress. Possono essere identificate e cambiate le situazioni o i comportamenti che contribuiscono al tuo stress cronico.

Fonte: How stress affects your health, a cura di APA, American Psychological Association Help Center

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un consulto.
Vai alla guida “Fare ciò che conta nei momenti di stress” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

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Scegliere una psicoterapia. Cinque consigli per non cascare male.

Scegliere una psicoterapia. Cinque consigli per non cascare male

Quando per affrontare un problema personale si decide di affidarsi a una psicoterapia, ci si trova di fronte a una difficile scelta. Di professionisti ce ne sono davvero tanti e con formazioni e approcci molto diversi tra loro. Non è escluso che non orientandosi bene in questo mare magnum, si possa perfino finire nello studio di un ciarlatano che non avrebbe nemmeno titolo per esercitare la psicoterapia, ma si sa ben pubblicizzare e vendere.
Allora ecco cinque consigli per affidarsi a uno/a psicoterapeuta senza cascare male.

Primo consiglio

Prima di affidarsi ad un professionista, la prima regola è accertarsi che sia effettivamente iscritto/a all’Albo degli psicologi. Se l’oggetto della consulenza riguarda la cura di disturbi psicopatologici, non è nemmeno sufficiente essere psicologi, è necessario avere acquisito il titolo di psicoterapeuta, che implica 4 anni di scuola di specializzazione in più. Questa informazione può essere acquisita tramite l’Ordine degli psicologi o dei medici (possono accedere alle scuole di psicoterapia sia i laureati in psicologia che i laureati in medicina), ad esempio inviando una mail alla loro segreteria.

Diffidare di chi si propone come molto empatico o capace a partire da una predisposizione all’ascolto e all’aiuto degli altri. La verità è che solo una adeguata e lunga formazione in psicoterapia è la base di una pratica qualificata.

Le terapie che funzionano non scaturiscono da capacità individuali innate, ma piuttosto da una solida preparazione su tecniche che hanno un fondamento scientifico, che sono riconosciute dalla comunità scientifica e che sono consolidate in decenni di pratica.

Secondo consiglio

Un bravo e onesto professionista è in grado di specificare per quali disturbi o problematiche il suo approccio è più indicato, e, per le problematiche di cui non si occupa, è in grado di orientare a forme di trattamento alternativo, più adatte ed efficaci in quel caso, informando il paziente dell’esistenza di queste opportunità.

Diffidare di terapie in cui si dà a intendere che i problemi e i disturbi psicologici scaturiscono tutti da una sola causa generale.

Ad esempio, ed è il caso più frequente, l’idea che se stiamo male è perché abbiamo subito nell’infanzia un qualche tipo di trauma (spesso di tipo sessuale), anche se magari nemmeno ce lo ricordiamo.

Parallelamente, è necessario diffidare di terapie che propongono la stessa identica tecnica terapeutica per tutti i casi.

Il paziente può avere in questi casi la sensazione che una diagnosi sia stata fatta un po’ frettolosamente, senza avere la possibilità di dire tutto quello che secondo lui/lei è rilevante, oppure la sensazione che il professionista cerchi di imporre le proprie convinzioni senza cogliere le differenze e le specificità di cui la persona è portatrice.

Terzo consiglio

Le terapie efficaci sono solitamente basate su precise tecniche volte ad acquisire abilità personali di fronteggiamento attivo di determinate situazioni e si focalizzano sulle problematiche attuali per rendere il paziente più efficace nel gestirle.

Diffidare delle terapie che si basano unicamente sul recupero dei ricordi, nell’idea che la guarigione avverrà per il solo fatto di aver ricordato.

Se anche è utile ricostruire fasi precedenti della vita al fine di comprendere i fattori predisponenti, causativi o precipitanti di un disturbo o di una difficoltà, la semplice rievocazione di fatti che risalgono all’infanzia non li farà svanire come per incanto. Questa evidenza è ormai consolidata all’interno della comunità scientifica.

Quarto consiglio

Il buon esito di una terapia dipende spesso da una buona alleanza terapeutica, cioè la sensazione che paziente e terapeuta hanno di lavorare nella stessa direzione e per gli stessi obiettivi, stabiliti dal paziente. Un bravo professionista è contento che il proprio paziente non sia passivo, ma attivo nel definire i propri obiettivi di crescita personale, che chieda informazioni precise sulle metodiche utilizzate e che espliciti i propri dubbi, perché questo coinvolgimento attivo del paziente solitamente è associato al successo della terapia.

Diffidare del professionista che impone i propri obiettivi, che si mostra seccato di fronte alle domande, infastidito dai dubbi, reticente nell’esplicitare le premesse teoriche da cui parte o le tecniche che sta utilizzando.

Quinto consiglio

Un paziente deve poter valutare in autonomia come si sente e i progressi che sta ottenendo. Soprattutto deve sentire di essere rispettato nelle proprie emozioni, convinzioni, valori e scopi.
Se si ha la sensazione di non venire ascoltati o di essere controllati, se si pensa che importanti decisioni della propria vita vengono prese dal terapeuta piuttosto che essere prese in prima persona, se la seduta di terapia assomiglia più a una chiacchierata tra amici e il paziente ha la sensazione che si sta procedendo a tentoni, questi sono campanelli d’allarme da non ignorare e che vanno prima possibile discussi.

Ascoltare se stessi e dire con franchezza al proprio terapeuta come ci si sente. In una buona terapia c’è sempre spazio per ascoltare e accogliere questi aspetti.

Buona crescita personale!

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Il perfezionismo

Il perfezionismo

Ma il perfezionismo, è sano e desiderabile perché assicura risultati elevati e grande affidabilità, oppure è autodistruttivo e conduce a delusioni, insoddisfazione e depressione?
Il perfezionista dà grande valore all’eccellenza e desidera fortemente raggiungere obiettivi importanti. Il suo amore per la perfezione, se combinato con la perseveranza e se sostenuto da abilità, può portare a grandi risultati.
Allora perché il perfezionismo è sovente un correlato di psicopatologie serie (depressione, disturbi d’ansia, disturbi alimentari …)?

L’aspetto patologico risiede nel porsi standard personali eccessivamente elevati e irrealistici e, quello che è peggio, nel collegare in modo rigido il raggiungimento di tali standard alla valutazione di sé (autostima).

In altre parole, il perfezionista ritiene che il proprio valore personale risieda nel raggiungimento di questi standard particolarmente esigenti e che sarà accettato ed amato solo a condizione di fare perfettamente. Per questo motivo è iperattento agli errori, ognuno dei quali rappresenta ai suoi occhi un fallimento personale imperdonabile. Anche verso gli altri, tende ad essere giudice esigente, duro e punitivo, tanto quanto lo è verso se stesso.
Le sue azioni sono guidate dalla paura di sbagliare e di essere disapprovato, per cui paradossalmente rimanda continuamente o evita di confrontarsi con i compiti nei quali teme di fare fiasco, oppure controlla e ricontrolla in modo ossessivo quello che ha fatto allungando in modo esagerato i tempi di esecuzione di un compito, finendo per essere del tutto improduttivo.
Per lui è sempre tutto o niente, non riconosce il pregio e il merito di risultati intermedi o comunque sufficientemente buoni. Il che lo prostra facilmente in un vissuto di tristezza, vergogna, stress, indecisione, fallimento, dubbio, senso di colpa.

La base della bassa autostima del perfezionista sta appunto nell’irragionevolezza delle pretese verso se stesso e nell’idea che se non farà di più e meglio, perderà la stima delle persone.

Naturalmente esistono persone con una sana tendenza ad eccellere, che si distinguono dai perfezionisti patologici per le seguenti caratteristiche:
– Non collegano il proprio valore personale e la propria autostima al raggiungimento degli standard;
– Ritengono che il buon risultato porti soddisfazione personale, ma non ne hanno bisogno per ottenere l’amore e il rispetto degli altri;
– Sono attivi, creativi, entusiasti, sono contenti e si auto-congratulano anche per risultati intermedi;
– Vedono l’errore come un’occasione per apprendere e fare meglio la prossima volta, più che l’evidenza del proprio fallimento.
Esistono terapie efficaci per il trattamento del perfezionismo patologico, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, che, agendo su quell’insieme di credenze disfunzionali che lo tengono in vita, aiuta le persone a ritrovare il piacere di fare bene.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile approfondire in che modo il perfezionismo mina il proprio benessere psicologico.

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Depressione

Depressione

La depressione è un problema molto comune: la maggior parte delle persone si sente giù di umore, in particolare quando alle prese con fasi critiche della propria vita o con eventi stressanti.

Si stima che in Italia la depressione colpisca nell’arco della vita, circa l’11% della popolazione.

Un divorzio, una perdita di lavoro, problemi economici o un lutto sono esempi di eventi precipitanti la depressione. Ora però sappiamo che il nostro modo di pensare gioca un ruolo cruciale sul nostro umore.

Di seguito i principali segni e sintomi che si possono verificare in una condizione di depressione. Quando si è depressi, vi sono cambiamenti nel modo di pensare, sentirsi, comportarsi e nelle reazioni fisiologiche:

  • Tristezza, sensi di colpa, senso di disperazione;
  • Perdita di interesse o di entusiasmo;
  • Pianto o viceversa, totale incapacità a piangere;
  • Sentirsi soli anche quando si è in compagnia;
  • Irritabilità, rabbia, a partire da piccoli pretesti;
  • Stanchezza, spossatezza;
  • Agitazione, disturbi del sonno;
  • Cambiamenti rilevanti nel peso, nell’appetito e nel comportamento alimentare;
  • Perdita di autostima;
  • Previsioni future pessimistiche e negative;
  • Pensiero che tutto sia senza speranza;
  • Odio verso se stessi;
  • Difficoltà di memoria e di concentrazione;
  • Difficoltà a prendere decisioni;
  • Scoraggiamento, difficoltà ad iniziare o portare avanti attività.

Se si sperimentano alcuni di questi sintomi, la condizione può essere temporanea o sfociare in un disturbo cronico.

La terapia cognitivo-comportamentale è efficace nel trattamento della depressione e può fornire una valida alternativa al trattamento farmacologico, anche nelle forme più gravi del disturbo.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico finalizzato a un migliore tono dell’umore.

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Tecniche comportamentali al servizio della sicurezza

Tecniche comportamentali al servizio della sicurezza

Articolo di Elena Grilli pubblicato nel 2013 su “Psicoin”

Lavorando con donne che subiscono prolungate e reiterate violenze in una relazione sentimentale, emerge in modo sistematico la questione della sicurezza, minacciata e da tutelare, prima di qualunque altro intervento.

Anche le psicologhe e gli psicologi, coinvolti a vario titolo, hanno un ruolo importante nella tutela della sicurezza delle donne.

Tutte le esperienze internazionali mostrano che i paesi in cui il fenomeno della violenza domestica è contrastato con maggiore efficacia ed efficienza, non sono i paesi in cui vi sono le pene più elevate, ma quelli ad alta inclusione, tolleranza della diversità ed intolleranza verso la violenza. Dove la frequenza dei femminicidi è più basso, è dove chi si comporta in modo violento va incontro ad una reazione sociale di rifiuto e biasimo. Dove le donne sono più sicure, è dove l’intera collettività si fa carico della sua sicurezza. Rispetto a questo, è chiaro quale potrebbe essere il ruolo degli psicologi e delle psicologhe nella prevenzione e nel contrasto del fenomeno violento, in termini di sensibilizzazione, educazione alla pace, alla pro-socialità, alla comunicazione assertiva per risolvere i conflitti.

Vi è però un altro tipo di interventi che compete alle psicologhe e che tipicamente vengono attuati in un centro anti-violenza oppure in una casa rifugio. Si tratta di quel percorso volto a ricostruire cognitivamente un pensiero di sicurezza personale, che le donne vittime di abusi possono intraprendere per ricominciare a pensare a se stesse in termini di persone degne di vivere sicure e libere dalla violenza, premessa necessaria affinché loro stesse mettano in atto comportamenti di auto-protezione.

L’obiettivo che mi propongo è quello di illustrare come sia la stessa esposizione ripetuta alla violenza a produrre come risultato l’incapacità delle vittime ad auto-proteggersi. Inoltre cercherò di esporre i metodi e le tecniche che possono essere utilizzati per ripristinare questa capacità e le accortezze da utilizzare in una psicoterapia per salvaguardare la sicurezza di una vittima di violenza domestica.

La capacità di auto-proteggersi

A volte si rimane stupite, nel lavoro quotidiano con donne che hanno subito maltrattamenti, dalla facilità con cui queste si espongono a situazioni rischiose, inclusa la tendenza a ritornare dal proprio partner violento dopo esserne fuggite, una volta cessato lo stato d’allarme conseguente ad una grave aggressione.

Mentre soggiorna in una casa rifugio, Pamela (tutti i nomi sono ovviamente di fantasia) non solo accetta di incontrare l’ex compagno, ma gli affida i due figli per un pomeriggio per andare a prendere un gelato insieme, nonostante lui per intimorirla abbia più volte minacciato di fare del male anche ai bambini. Carolina, che ha subito dal marito violenze talmente sadiche da essere equiparate alle peggiori tecniche di tortura, decide di lasciare la casa rifugio per tornare da lui, perché questi continua a chiamarla, a dichiararle un amore totale e a fare promesse di cambiamento.

Fabiola sminuisce l’ultima feroce aggressione in cui ha rischiato di venire strozzata dal marito e più volte torna a casa sua per prendere delle cose che ha lasciato lì e che, dice, le servivano assolutamente. Carla, che ugualmente ha subito gravi violenze fin dall’inizio del proprio matrimonio, telefona al centro anti-violenza per disdire il successivo appuntamento, dichiarando che non è nulla, si tratta di cose di poco conto, problemini come ce ne sono in tutte le famiglie. Si tratta di alcuni esempi in cui il pensiero di sicurezza personale, per quella donna, non rientra fra le priorità.

In seguito ad un episodio di maltrattamento la richiesta d’aiuto è facilitata dalla reazione di paura innescata dal pericolo oggettivo che la donna deve fronteggiare. In questa fase è più facile per lei pensare alla fuga e alla interruzione definitiva del rapporto malsano. Non di rado, tuttavia, avviene un ripensamento per cui la donna decide di interrompere il percorso intrapreso, dichiara di non volersi più separare, ritira la denuncia, parla di quanto avvenuto normalizzando l’esperienza di abuso, come se fosse incapace di vedere la violenza che solo pochi giorni prima aveva attivato la richiesta d’aiuto. La donna potrebbe addirittura avere la sensazione che il contesto familiare sia rassicurante in quanto prevedibile, controllato, mentre è il mondo esterno ad essere pericoloso, richiestivo, difficoltoso.

Un elemento cruciale che porta queste donne a ragionare e comportarsi così è la sottovalutazione del rischio e la menomata capacità di correttamente decifrare determinate situazioni come pericolose per la propria incolumità. Due sono i principali fattori che concorrono a questa difficoltosa discriminazione del rischio: fattori culturali da un lato e fattori legati all’esperienza di violenza dall’altro.

Fattori culturali
La nostra cultura ci aiuta poco a discriminare tra un uomo affidabile e un uomo violento, tra una relazione sana e una abusante.

Attraverso il processo di socializzazione ci costruiamo una idea precisa di come dovrebbero essere un “vero uomo” e una “vera donna”. Gli stereotipi di genere ci fanno apparire come più appetibili gli individui che si avvicinano a quello stereotipo e meno attraenti quelli che se ne distanziano. Purtroppo per noi donne, gli stereotipi sono altamente ingannevoli. L’idea dominante di “uomo” è infatti corredata da tutta una serie di caratteristiche – duro, forte, poco incline alle emozioni, perfino un po’ brutale e possessivo – che paradossalmente sono i principali segnali d’allarme che all’inizio di una storia sentimentale potrebbero mettere in allarme una donna quando non è ancora coinvolta affettivamente e potrebbe essere più facile per lei stare alla larga da un partner potenzialmente pericoloso. In altre parole, proprio i tratti e i comportamenti che dovrebbero far scattare una reazione di allarme, sono gli stessi che la nostra cultura definisce in modo positivo, come piacevoli, rassicuranti, amabili, affascinanti. Capita così molto spesso che le donne fin dall’inizio di una relazione, accettino determinati comportamenti che sono invece vere e proprie mancanze di rispetto, semplicemente perché classificati – non solo da lei – come i modi in cui il “vero uomo” dovrebbe comportarsi. Film, canzoni, romanzi che abbiamo profondamente amato in effetti mostrano protagonisti maschili brutali o addirittura veri e propri teppisti come modelli attraenti.

Non solo: ci viene insegnato ad interpretare in chiave positiva anche il possesso e il controllo, che sono il principale movente di tutte le violenze sulle donne. Quante volte sentiamo associare il concetto di amore e quello di gelosia, come se fossero sovrapponibili, anzi come se la gelosia fosse indice e misura dell’amore.

Ascoltando i racconti delle donne vittime di violenza domestica, emerge che quasi nessuna di loro ha subito violenze gravi fin dall’inizio della relazione, quasi tutte all’inizio hanno interpretato come attraenti atteggiamenti che solo successivamente si sono esacerbati e sono sfociati in violenza vera e propria. Sono state attratte da lui perché appariva “forte”, “geloso di me”, “protettivo”, “innamorato al punto di fare follie”. Quando poi la violenza è esplosa, erano già coinvolte in una relazione significativa, magari erano già sposate e avevano figli, e a quel punto interrompere la relazione era già molto più difficile. Interrompere la relazione a questo punto, ce lo ricordano le cronache quotidiane, espone anche ad un maggiore rischio di femminicidio.

A volte gli stereotipi culturali ci ingannano talmente tanto da farci perdere di vista la reciprocità: si scivola così in una relazione totalmente controllante, in cui è uno dei due, l’uomo, a detenere il potere e l’altra, la donna, a subirlo. In fondo, non ci insegnano che l’uomo è cacciatore e la donna è la sua preda? L’idea culturalmente dominante di virilità contribuisce non poco, quindi, a intorpidire le capacità di reazione delle donne anche di fronte alle prime manifestazioni aggressive, rendendo così possibile l’inizio di un vero e proprio “intrappolamento”.

Fattori legati all’esperienza di violenza
Una volta intrappolata in una spirale di violenza, la capacità di discriminazione della violenza è destinata a ridursi ulteriormente, in conseguenza di meccanismi di adattamento al contesto violento. L’esposizione prolungata alla violenza produce come risultato un progressivo innalzamento della soglia di tolleranza per cui la donna gradualmente giustifica e tollera gradi crescenti di intensità della violenza. Attraverso meccanismi di minimizzazione, negazione ed auto-colpevolizzazione, in gran parte indotti dal maltrattante, le vittime vanno incontro ad una perdita della percezione della gravità e del reale pericolo.

In seguito ad una aggressione, il maltrattante darà la sua personale lettura dell’accaduto e il suo maggiore potere nella relazione gli consentirà di farla prevalere sulla percezione della donna. Minimizzerà la gravità della violenza e attribuirà la responsabilità alla vittima, giudicando il comportamento di lei come veramente grave (in termini di mancanza di rispetto, provocazione, negligenza, o altri comportamenti da punire).

A rendere il tutto più difficile è il fatto che il maltrattante è anche il partner sentimentale. Tipicamente, in un rapporto maltrattante, si alternano opposte modalità: alla violenza segue una modalità riparativa, fatta di seduzione, rassicurazione, manipolazione che da un lato intrappola la vittima nell’illusione di una felicità possibile, dall’altro la rende sempre più insicura rispetto alle proprie percezioni. Questo ribaltamento delle percezioni porta la donna a non ritenere necessario proteggersi, e anzi a colpevolizzarsi per il proprio comportamento, ritenendolo la causa della reazione violenta dell’altro.

Un altro meccanismo che altera la percezione del pericolo è di tipo fisiologico. Le esperienze di violenza che le donne hanno subito all’interno di una relazione intima hanno sempre almeno una implicazione: l’elevata attivazione fisiologica (arousal) in risposta alla ripetuta esposizione alla violenza fisica, sessuale e verbale. Ogni organismo che deve fronteggiare un pericolo o una minaccia, mette in atto una risposta d’emergenza (tra le altre cose: attivazione del sistema nervoso simpatico, rilascio di adrenalina e messa in tensione dei muscoli scheletrici). Questa esperienza viene comunemente definita “paura” ed è funzionale ad un comportamento di fuga o di difesa. Le donne che subiscono maltrattamenti familiari presentano questo tipo di risposta in modo continuo e ripetitivo a causa di una minaccia reale sempre presente e sempre pronta a scattare al minimo pretesto. È quindi come se l’attivazione fisica non cessasse mai, in uno stato d’allerta che è costante e che può essere alleggerito solo al prezzo di minimizzare o negare la violenza, meccanismi messi in atto dalle donne non solo in conseguenza del lavaggio del cervello del maltrattante: si tratta infatti di meccanismi di resistenza e adattamento al contesto violento che permettono alle donne di sopravvivere in una situazione in cui altrimenti il loro corpo andrebbe incontro ad un rapido esaurimento delle forze. Vivere in uno stato d’allerta incessante, con metabolismo innalzato e tensioni neuromuscolari sempre elevate, comporta un innalzato rischio di disturbi psicosomatici, ansia generalizzata, insonnia, conseguenze che comunque a lungo termine si verificano, ma che a breve termine possono essere alleviate appunto sdrammatizzando, riducendo il rischio percepito, normalizzando l’accaduto.

La percezione del rischio della vittima di violenza domestica cambia continuamente: è elevata subito dopo una aggressione violenta e si riabbassa successivamente per le dinamiche descritte. Anche qualora la donna venga messa in protezione in una casa rifugio, presupponendo quindi una emersione del problema della violenza e una attivazione della risposta istituzionale, è comunque possibile che possano verificarsi ritrattazioni oppure violazioni delle regole di sicurezza della casa rifugio, percepite come esagerate. In quest’ultimo caso, le figure a cui la donna ha chiesto aiuto (assistenti sociali, magistrati, Forze dell’Ordine, ecc.) possono arrivare a mettere in dubbio la sua credibilità, con effetti negativi anche sull’iter giudiziario.

In sintesi, fattori culturali inibiscono la capacità di discriminare comportamenti violenti, etichettandoli come amore e attaccamento e facilitando l’investimento affettivo in una relazione pericolosa; permanere per un certo tempo all’interno di un rapporto abusante, poi, riduce ulteriormente la discriminazione della violenza, fino a rappresentare come “normali” comportamenti che vanno dalla semplice mancanza di rispetto alla vera e propria minaccia per la vita.

Ricostruire la capacità di auto-proteggersi

Capire la risposta al maltrattamento, all’abuso e al controllo ci mette in grado di comprendere il trauma psicologico e il comportamento della donna finché è prigioniera della spirale violenza, che è illogico solo se decontestualizzato, in realtà adattivo nel contesto violento. Per questo motivo è necessario, prima di qualunque intervento psicoterapeutico finalizzato a superare il trauma dell’abuso e al re-empowerment, mettere la vittima in sicurezza e darle un tempo per abbandonare quelle modalità funzionali nel contesto violento, ma disfunzionali al di fuori.
In questa fase del percorso di uscita dalla violenza, alcune metodologie utili possono essere di tipo comportamentista.

Prevenire una aggressione
Ad un Centro anti-violenza può arrivare la richiesta di aiuto di una donna che, per ostacoli vari, non è in condizione di allontanarsi immediatamente dalla propria abitazione o dal proprio partner (non saprebbe dove andare, non ha un lavoro, ha paura di venire uccisa, prima di fuggire vuole attendere che un figlio termini l’anno scolastico, ha in casa un anziano da accudire, ecc.).

In questi casi, è possibile comunque educarla alla sicurezza, aiutandola a riconoscere gli antecedenti delle esplosioni violente e a mettere in atto le strategie che le danno una maggiore probabilità di sottrarsi alla violenza prima che prorompa in modo incontrollabile. La tecnica comportamentista per eccellenza è l’Analisi funzionale: attraverso la ricostruzione dei vari episodi di violenza, la psicologa individua gli antecedenti e le contingenze di rinforzo del comportamento violento.

La donna viene preparata a riconoscere i segnali d’allarme ed addestrata a mettere in atto la cosiddetta tecnica del “time-out”, sottraendosi alla situazione pericolosa prima che la rabbia di lui esploda. La strategia abitualmente utilizzata dalle donne è quella invece di rimanere, obbedire, assecondare, avvicinarsi a lui per ragionare, provare a calmarlo, strategia che a volte le ha effettivamente permesso di rabbonirlo, ma altre volte no. Tale strategia, che può talvolta essere funzionale a breve termine, è comunque sempre disfunzionale a lungo termine, perché fornisce un rinforzo al comportamento violento e dà alla donna una erronea convinzione di controllo sul comportamento di lui. Il time-out, invece, permette di sospendere l’erogazione del rinforzo al comportamento violento e di aumentare la probabilità di bloccare l’escalation al primo segnale premonitore, quando la situazione non è ancora fuori controllo.

Auto-proteggersi durante una aggressione
Quando invece la situazione finisce fuori controllo, la donna è completamente nelle mani del proprio maltrattante. L’aggressione cesserà sempre e solo quando lui lo decide ed indipendentemente dal comportamento di lei. Anche in questo caso, tuttavia, chi si rivolge al Centro anti-violenza può essere addestrata a fare le cose giuste nel panico, auto-proteggersi e proteggere i figli nel limite del possibile e mettere in atto un piano di fuga già esplorato e rappresentato più volte attraverso tecniche di reharsal o simulazioni. Avere una borsa già pronta, i documenti importanti, del denaro messo da parte, numeri di telefono di riferimenti importanti nell’emergenza memorizzati nel cellulare, i figli addestrati a chiamare la polizia piuttosto che cercare di mettersi in mezzo per proteggere la propria madre, chiamare le Forze dell’ordine e fare una sintesi della situazione in modo efficace, sono accorgimenti che possono modificare anche di molto l’esito di una aggressione.

Auto-proteggersi nel post-emergenza
Vi è infine la situazione delle donne che arrivano a prendere una decisione di andarsene e lasciare il partner violento, ad esempio attraverso un passaggio in casa rifugio, ma non necessariamente. Le professioniste che offrono il loro sostegno in questa fase non devono stupirsi se osservano un graduale calo dello stato d’allarme e una successiva sdrammatizzazione delle violenze avvenute. La tentazione a normalizzare l’esperienza di abuso, come già evidenziato, rappresenta più la regola che l’eccezione e saremmo tratte in inganno se pensassimo alla donna come una bugiarda manipolatrice oppure come una sciocca sprovveduta: sta solo mettendo in atto le strategie di difesa che le hanno permesso di sopravvivere nel contesto violento, ha bisogno di un tempo per recuperare fiducia nelle proprie percezioni ed un contatto con la realtà che la violenza necessariamente capovolge.

Le donne possono essere aiutate a discriminare i segnali fisiologici della paura ed educate a non ignorarli, a riconoscere le forme della violenza (compresa la violenza psicologica, sessuale, economica) e le strategie del controllo, a centrarsi su di sé e i propri bisogni, a conoscere i propri diritti affermativi, a ripristinare una visione assertiva di se stessa, come persona che ha il diritto di vivere in sicurezza, libera dalla paura, all’interno di relazioni basate sul rispetto.

La sicurezza in una psicoterapia

La questione della sicurezza non è un aspetto delicato da affrontare solo in un centro anti-violenza o in una casa rifugio. Anche gli psicologi e le psicologhe che svolgono la libera professione oppure che lavorano nei servizi pubblici, a volte si trovano ad averci a che fare. Può accadere ad esempio ad uno psicoterapeuta a cui una donna si rivolge per un disturbo d’ansia, oppure un terapeuta familiare a cui due coniugi chiedono una terapia di coppia, oppure in un Consultorio a cui una donna si rivolge per una interruzione di gravidanza, ecc. – e dall’assessment emerge una problematica di violenza.

Nel trattare casi di violenza domestica, storicamente, si sono fronteggiate due posizioni avverse l’una all’altra: da un lato i fautori delle terapie familiari (principalmente sistemiche, ma non solo), dall’altro l’approccio psicoterapeutico di stampo femminista.

La prima inquadra il problema in termini di schema comunicativo disfunzionale e di escalation alla quale contribuiscono entrambi i partner, attraverso una crescente provocazione reciproca. La terapia proposta è solitamente di coppia.

L’approccio femminista, invece, tende ad attribuire l’intera responsabilità della violenza al suo autore e considera un percorso di coppia controproducente o addirittura pericoloso. Il classico paradigma “di genere” tratta la violenza nelle relazioni intime separando i partner e assegnando la donna vittima delle violenze ad un programma di sostegno ed elaborazione del trauma, mentre l’uomo violento ad un programma spesso di tipo psicoeducativo basato su strategie di gestione della rabbia e assunzione di responsabilità per la violenza.

Le ricerche più recenti sembrano colmare questa apparentemente insanabile divergenza, cercando di distinguere pattern diversi di violenza. In particolare possono essere distinte tre diverse modalità:

1. Controllo coercitivo – coppia caratterizzata da violenza unidirezionale, controllo di un partner sull’altro, intimidazione, paura della donna che di fatto non ha voce, è soggiogata.

2. Violenza situazionale – è spesso reciproca e determinata da una povertà di entrambi i partner rispetto ad abilità di auto-controllo e di regolazione della rabbia, e difficilmente sfocia in danni fisici seri.
3. Violenza e controllo reciproci – entrambi i partner sono controllanti e violenti l’uno verso l’altra.

L’ultima fattispecie è piuttosto rara e la letteratura non offre spunti per il trattamento.

Un percorso di coppia può invece essere pensato per la violenza cosiddetta situazionale, in cui si suppone che la violenza sia l’esito di una provocazione reciproca, e una terapia di coppia può aiutare entrambi a comprendere quali sono i trigger dei propri comportamenti, assumersene la responsabilità e abbandonare le modalità comunicative aggressive. In questo caso però, vi devono essere dei pre-requisiti per procedere con la terapia: entrambi devono essere impegnati nella terapia, motivati al cambiamento e pronti ad assumersi la propria parte di responsabilità. Inoltre anche quando la violenza è biunivoca, l’uomo deve riconoscere la sua maggiore forza e capacità in termini di minaccia e danno potenziale verso la donna.

Nel caso del controllo coercitivo – laddove non vi sia semplicemente una difficoltà comunicativa o di negoziazione tra i due partner, ma una condizione di intimidazione, di dominio e di vero e proprio abuso di uno sull’altra – sono consigliati percorsi individuali per vittima e carnefice. L’idea di fondo di questa scelta sta nell’assunto che la coppia non vada seguita insieme per ragioni innanzi tutto di sicurezza (la vittima andrebbe incontro a ritorsioni anche gravi se provasse a parlare col terapeuta della gravità della violenza o a far valere le proprie istanze), ma anche perché fondamentalmente maltrattante e vittima hanno questioni diverse su cui lavorare.

L’assessment che lo psicoterapeuta fa è cruciale: la sua valutazione iniziale deve poter rilevare la gravità della violenza e i fattori di rischio e letalità per la vittima. Se ad esempio rileva che vi sono stati ricorsi al pronto soccorso o ricoveri ospedalieri a causa della violenza, questa è una informazione che dovrebbe completamente orientare le scelte terapeutiche andando verso una attenzione prioritaria per la sicurezza della paziente che subisce gli abusi.

Conclusioni

Le psicologhe e gli psicologi che accolgono la richiesta d’aiuto di una donna vittima di violenza possono fare molto, usando le proprie competenze anche nell’ambito della tutela della sicurezza. Il loro ruolo può essere cruciale sia nell’emergenza, sia nel post-emergenza, attraverso un empowerment mirato al rafforzamento della capacità di auto-tutela.

Una scelta di sicurezza è auspicabile anche in sede di psicoterapia, semplicemente non procedendo con una terapia di coppia quando si rileva una minaccia seria per l’incolumità fisica di una dei due o quando una dei due appare visibilmente intimorita ad esprimersi in presenza dell’altro.

BIBLIOGRAFIA

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Walker L.E.A. (2009) – The battered woman syndrome. Springer Publishing

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Il ruolo della psicologa nei percorsi di uscita dalla violenza

Il ruolo della psicologa nei percorsi di uscita dalla violenza

Articolo di Elena Grilli pubblicato nel 2011 su “Psicoin“.

“Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima”

(Elie Wiesel)

Quando cinque anni fa iniziai le mie attività di consulenza per “Donne e Giustizia”, non immaginavo quanto quest’esperienza mi avrebbe cambiato la vita, né quanto avrebbe sovvertito tutto ciò che sapevo di psicologia.
Entrata con l’idea ingenua che avrei avuto a che fare con situazioni patologiche – di uomini malati di mente capaci di aberrazioni nei confronti delle donne che dichiarano di amare o di donne altrettanto malate e fragili, dipendenti e passive – sono stata costretta a constatare un quadro ben più inquietante, di una violenza sì orribile, ma quotidiana, tanto ordinaria da non prestarsi ad alcuna classificazione diagnostica, e soprattutto tanto intessuta nei rapporti tra generi da passare per normale e quindi inosservata anche quando le donne gridano la loro disperazione e chiedono aiuto più e più volte.
Quasi subito ci si rende conto che si tratta di un ambito di intervento, quello sulle donne maltrattate, che non solo rappresenta una sfida professionale per la complessità dei bisogni di cui esse sono portatrici, ma comporta anche una messa in discussione totale del personale essere donna in questo mondo, in questa società e in questa dimensione culturale, che coinvolge non solo le donne maltrattate, ma anche le donne che lavorano in qualità di operatrici, avvocate e psicologhe del centro anti-violenza. Di più: tutte le donne.
Si è infatti costrette a constatare che, come sostiene Patrizia Romito, esiste un continuum tra il desiderio di esercitare un dominio totale sulla propria partner – anche distruggendone l’autonomia materiale e psicologica attraverso la violenza – e i modelli socialmente accettati di mascolinità. È questa la chiave di lettura che è necessario avere per approcciarsi ad un caso di violenza domestica mantenendoci non giudicanti nei confronti della donna che chiede aiuto, consapevoli della cornice culturale in cui le violenze avvengono e sono tollerate, lucide nella ricerca di soluzioni che tengano conto dei limiti innanzi tutto oggettivi ed esterni alla donna – più che solo psicologici – che le sono di ostacolo nei suoi tentativi di affrancarsi dalla violenza.
Un’altra particolarità, capace di togliere la terra da sotto i piedi ad una psicologa, è la seguente: in nessun altro ambito di intervento psicologico o psicoterapeutico che io conosca è necessaria, per procedere correttamente, una precisa scelta di non-neutralità, come nel caso della consulenza alle donne vittime di violenze domestiche. Si tratta di contesti qualitativamente diversi dalla semplice conflittualità di coppia, in cui entrambi i partner hanno una modalità aggressiva e disfunzionale di risolvere il conflitto e soprattutto una responsabilità condivisa e più o meno paritaria. Parliamo invece di situazioni in cui lo squilibrio di potere, di forza, di risorse economiche e materiali, di manipolazione e controllo è tale, da annichilire completamente la donna, limitata nella sua libertà, costretta a vivere in una condizione di isolamento e dipendenza economica, picchiata selvaggiamente se osa ribellarsi, minacciata di essere uccisa se se ne va. Talvolta uccisa davvero. Non è possibile non fare una scelta di valore: dalla parte della vittima, sempre; la responsabilità della violenza a chi la compie, sempre. In realtà non è solo una scelta di valore, ma l’unica modalità operativa veramente utile. La pretesa di neutralità – che dovrebbe portare entrambe le parti a riconoscere la propria corresponsabilità – è pura illusione in queste situazioni e la conseguenza possibile è mettere la donna in un rischio ancora maggiore per la sua incolumità. Rispecchiare alla donna anche solo una parte della responsabilità in quello che accade a casa, infatti, equivale a colludere col maltrattante, il quale utilizza già ampiamente la tecnica della colpevolizzazione della sua vittima, ripetendole che è lei a sbagliare, a provocare, a esasperare. Si farebbe quindi il gioco dell’uomo violento, legittimando le sue accuse nei confronti della partner e togliendo invece a quest’ultima la legittimità della sua reazione alla violenza. Non è dunque evitabile una scelta di campo.

Gli ostacoli che le donne incontrano

La ricerca degli ultimi quarant’anni ha messo in discussione le categorie di derivazione psicoanalitica – il masochismo femminile e il bisogno inconscio di dolore e punizione – chiamate in causa e ampiamente utilizzate fino agli anni ’60 per spiegare l’assenza di motivazione alla separazione delle donne maltrattate.
Negli anni ’70 e ’80, la ricerca sociale – dati empirici alla mano – ha rigettato l’idea di patologia per mettere in luce i concetti di condizionamento legato ai ruoli di genere, il sessismo istituzionalizzato, i limiti legati alle condizioni materiali, economiche e sociali delle donne. Più spesso disoccupate (e anche quando occupate con un reddito inferiore agli uomini), molte donne che volessero separarsi da un partner violento – poco propenso ad essere puntuale nel versare il dovuto mantenimento – esporrebbero se stesse ed i propri figli a condizioni di povertà. Le donne che vengono a chiedere aiuto nel centro anti-violenza sono portatrici anche di bisogni come: un lavoro, un tetto, un mezzo di trasporto, servizi per i figli minori. La psicologizzazione del problema è in questi casi una risposta inadeguata, che colpevolizza la donna e chiude gli occhi di fronte agli impedimenti reali che le rendono impossibile interrompere l’abuso da sola.
A questi si aggiungono gli ostacoli di ordine sociale e ambientale. Il mancato accesso al sostegno di una rete sociale è un aspetto spesso presente in donne che per effetto della violenza fisica e psicologica hanno gradualmente rotto i ponti talvolta perfino con la propria famiglia d’origine, per essere completamente ostaggio del maltrattante. Se la rete di sostegno informale è spesso deteriorata, quella formale ed istituzionale non è sempre efficace. Le donne chiedono aiuto più spesso che in passato, ottenendo però in alcuni casi risposte che anziché aiutarle le lasciano nello status quo, inducendo in loro un senso di impotenza crescente. Possono essere convinte a tornare da quell’uomo che “in fondo è suo marito” ed ha “pure lui i suoi problemi” oppure “per il bene dei figli”. Quando infine subentra la rassegnazione e la donna perde totalmente la speranza di poterne uscire, cala su di loro un giudizio sociale ancora più negativo, di donne malate, incapaci di arrestare la violenza o di interrompere il rapporto abusante.
Patrizia Romito descrive tre tipi di risposte disfunzionali che l’ambiente dà alla richiesta di aiuto della donna vittima di violenze familiari: (1) il non riconoscimento o la minimizzazione della violenza; (2) il rifiuto, che si verifica quando pur prendendo atto che le violenze avvengono, se ne dà la colpa alla donna; (3) la psicologizzazione abusiva, quando si ricercano le cause delle difficoltà della donna nella sua psicologia giudicata patologica, anche se la richiesta si collocava su un piano completamente diverso (ad esempio la donna chiedeva cure mediche o un aiuto economico). In ognuno di questi casi, l’operatore che riceve la richiesta d’aiuto sembra solidarizzare con l’uomo violento, e la donna si sente dire con un gergo solo un po’ più tecnico concetti già abbondantemente espressi in forma di insulto dal loro maltrattante: (1) “Che vuoi che sia, era solo uno schiaffo, non piagnucolare per niente!”; (2) “Che vuoi da me, sei tu che provochi!”; (3) “Sei tu la pazza, sei una donna indegna!”.
Tra gli ostacoli di ordine sociale includiamo anche la tutela inadeguata della sicurezza. Molte donne restano bloccate nella situazione di violenza, più che da un elemento di irrazionalità, piuttosto da un dato di realtà e da una attenta e razionale valutazione del rischio. Esse sanno bene che se provassero a lasciare il partner, andrebbero incontro ad un rischio maggiore per la propria incolumità e sanno che le istituzioni non le proteggerebbero. I numerosi casi di stalking, molti dei quali sfociati in omicidio, testimoniano che questa valutazione è spesso corretta e che in realtà si rischia di meno assecondando l’uomo e rimanendo con lui.
Pur continuando a considerare determinanti i fattori socio-culturali, ed avendo abbandonato definitivamente l’idea di un invischiamento patologico, a partire dagli anni ’90 si iniziano ad enucleare altre cause, di ordine cognitivo, per cui le donne fanno fatica a lasciare un partner violento. Naturalmente queste ricerche costituiscono un patrimonio prezioso per la consulenza psicologica alle utenti del centro anti-violenza, perché permettono di individuare, discutere e ristrutturare gli ostacoli interni all’uscita dalla violenza. Di seguito un elenco dei punti principali:
Informazioni e credenze erronee – Alcune donne possono essere frenate dal prendere una decisione definitiva di interrompere la relazione abusante da una serie di informazioni sbagliate, spesso insinuate dal maltrattante stesso sotto forma di minaccia. Alcune possono temere che l’uomo sarà in grado di togliere loro l’affidamento dei figli se se ne vanno. Altre pensano che se non hanno prove della violenza subita, non possono fare denuncia alle forze dell’ordine. Altre ancora non hanno idea di quali comportamenti costituiscano reato e siano quindi denunciabili. Spesso c’è una ignoranza sui loro diritti fondamentali in caso di divorzio. Si tratta naturalmente di un tipo di ristrutturazione cognitiva che viene attuata dalle avvocate del centro semplicemente trasferendo le informazioni corrette. Questa operazione, benché banale, è capace da sola di alleviare notevolmente i timori delle donne.
Non percepire se stessa come vittima di violenza
 – Molte donne, come si è già visto, non sono poi così passive come il senso comune ritiene: si difendono e difendono i loro figli, cercano di far intervenire familiari e amici, cercano di ragionare con l’uomo affinché cambi, utilizzano strategie disparate per cercare di far funzionare il loro matrimonio. Questo essere così attive paradossalmente impedisce loro di vedere se stesse come “la tipica donna maltrattata” e la conseguenza è che potrebbero non chiedere aiuto. Un altro meccanismo è quello della normalizzazione, cioè il percepire atti violenti da parte del marito come qualcosa di normale, che si verifica in ogni matrimonio. La situazione è naturalmente più grave quando vi è isolamento dal contesto sociale e assenza di un confronto con altre persone che potrebbero fornire interpretazioni diverse della realtà.
Percezione stabile del pattern della violenza – La ricerca ha stabilito un nesso tra la decisione delle donne di andarsene e la loro percezione che la violenza stia diventando nel tempo più frequente e più grave. Questo infatti le porta a fare una previsione di ulteriore peggioramento delle loro condizioni di vita e a una perdita della speranza che le cose possano cambiare in meglio. Viceversa, la percezione che la violenza si sta mantenendo costante nel tempo, così come il non percepire una diminuzione nella quantità di affetto espresso nella coppia, è una strategia cognitiva che da un lato permette a queste donne di vedere la relazione più positivamente e di “tenere duro”, ma dall’altro le induce a restare.
Attribuzioni causali e di responsabilità – Chi subisce atti violenti naturalmente cercherà di darsi delle spiegazioni circa il perché sia accaduto questo proprio a lei. Le spiegazioni che si dà sono cruciali nel processo di decision making (andarsene/restare). È infatti più probabile che decida di lasciare il partner la donna che si dà una spiegazione in termini di attribuzione (1) interna al partner, (2) globale e (3) stabile, cioè se dirà a se stessa che le cause della violenza risiedono in qualcosa che appartiene alla personalità del partner, al suo modo di essere globale che è immodificabile. Se invece si dà spiegazioni in termini di attribuzione esterna (un momento difficile per il partner che magari è nervoso perché ha perso il lavoro) oppure interna a se stessa (sono io che ho sbagliato), questa decisione è molto meno probabile, perché la donna confida che la violenza cesserà se ad esempio determinate condizioni esterne miglioreranno oppure se loro stesse staranno più attente a non sbagliare.
Investimento psicologico nella relazione
 – Per alcune donne è estremamente dolorosa l’esperienza di constatare come anche l’estremo sacrificio non sia servito a far funzionare il matrimonio e per una reazione spiegabile come il risultato di una dissonanza cognitiva, preferiscono rinnovare gli sforzi, investendo ancora di più, in termini di tempo, risorse, sopportazione. In questo incidono fortemente anche valori morali e religiosi e stereotipi di genere che vogliono la donna “angelo del focolare” interamente responsabile del benessere e dell’armonia familiari. A questo si aggiunge che anche una relazione abusante avrà certamente degli elementi di gratificazione per la donna, quelli che vengono evocati come “i momenti belli”. Leonore Walker, già alla fine degli anni ’70 teorizzava il noto “ciclo della violenza”, suggerendo che spesso i maltrattamenti erano seguiti da un periodo di calma (detta “fase luna di miele”), durante il quale il maltrattante può impegnarsi in comportamenti compensatori quali fare regali, promesse di cambiamento, mostrare affetto, fare complimenti. Insomma, subito dopo l’episodio di violenza, il comportamento del maltrattante tende ad avvicinarsi a quello dell’uomo ideale e fa rinascere le speranze nella possibilità di una unione felice. Il comportamento della donna di continuare la relazione viene così rinforzato all’interno di un complesso sistema di premi e punizioni.
Ho elencato solo alcune delle risultanze della recente letteratura sul tema della “stay-leave decision”. Caso per caso, poi, la psicologa sarà in grado di individuare anche molti altri “pensieri-ostacolo” che necessitano di essere ristrutturati per aiutare la donna ad emanciparsi dalla violenza. Tra questi, un’idea di se stessa come poco amabile e indegna di felicità, doverizzazioni assolute su di sé, catastrofizzazioni, idee fatalistiche, pensieri di espiazione, giudizi negativi su di sé in termini di inadeguatezza, nonché la tendenza a commisurare il proprio valore personale sulla base della maggiore o minore aderenza al ruolo culturalmente associato al genere femminile.

Il processo di uscita dalla violenza

L’intrappolamento in una relazione violenta è graduale e può essere descritto come un processo di progressivo adattamento attraverso il quale le donne modellano il proprio comportamento in una direzione di crescente accondiscendenza, remissività, sottomissione, non necessariamente perché sono persone per natura passive e dipendenti, bensì perché queste modalità sono funzionali a prevenire le esplosioni di rabbia. A breve termine funzionano, sono utili a scongiurare la violenza e quindi vengono apprese come strategia di sopravvivenza. Di fatto lo stile passivo spesso è la risposta più adattiva al pericolo, anche se ovviamente diventa disfunzionale a lungo termine. La scelta di passività infatti riduce piano piano la self-efficacy, restringe le strategie di coping e aumenta la dipendenza.
Come l’intrappolamento, così anche l’uscita dalla violenza può essere concettualizzata più come un processo che come un singolo evento: un processo non lineare, con temporanee interruzioni, regressioni, strategie preparatorie, che inizia prima della separazione fisica e che continua ben oltre la separazione stessa. Si tratta di un fenomeno complesso, che implica non una decisione, ma molte decisioni e molte azioni, in un arco di tempo di mesi o anni. Sono possibili ripensamenti, pentimenti, dubbi, accelerazioni, titubanze, cambiamenti di rotta, il tutto in stretta relazione non solo con i cambiamenti sul piano cognitivo (nella percezione della donna rispetto a se stessa, al partner, al loro rapporto e alla violenza), ma anche, come si è già visto, con i fattori sociali e ambientali che possono intervenire a facilitare od ostacolare la donna in questo percorso, sostenendo la sua determinazione oppure fiaccandola col biasimo.
Il processo non si arresta con la separazione fisica dal partner per tre ordini di motivi. Il primo è che non è possibile far coincidere l’uscita dalla violenza con la semplice interruzione del rapporto. Chiudere una relazione non equivale a lasciarsi la violenza alle spalle: si avrà a che fare col maltrattante e si sarà esposte ad una possibile violenza ogni volta che lui l’andrà a cercare per insistere di tornare insieme oppure ogni volta che in virtù di un affido congiunto si dovranno scambiare i figli. I dati forniti dalle ricerche sullo stalking indicano una tendenza generale all’esacerbazione della violenza in seguito alla separazione, piuttosto che una sua cessazione. Il secondo motivo risiede nel fatto che, se le donne all’interno di una relazione abusante vanno facilmente incontro a conseguenze talvolta serie per la loro salute mentale, quando decidono di separarsi sono esposte ad un rischio addirittura maggiore di depressione. Le cause sono da ricercare nell’aumentato carico di stressors a cui la donna va incontro in una fase che comporta sfide importanti: trovarsi un lavoro, un altro tetto, ricostruire rapporti sociali e una rete di sostegno, battaglie legali per l’affidamento dei figli, oltre che continuare a difendersi dalle violenze che magari si sono fatte perfino più pericolose.
Il terzo motivo ha a che fare con un fenomeno tutt’altro che raro e che favorisce un giudizio negativo sulla donna: la possibilità di un ritorno dal partner violento. La letteratura più recente tende a leggere questo fenomeno in chiave sempre più positiva, come un evento possibile che fa parte del processo di uscita dalla violenza piuttosto che il fallimento del processo stesso determinato dalla definitiva incapacità della donna di farcela. Ad ogni breve separazione e ritorno corrisponde l’acquisizione di nuove coping skills e un innalzamento della self-efficacy (naturalmente a patto che l’operatrice con cui viene in contatto ne dia questa lettura); è come se la donna si esercitasse prima della separazione definitiva attraverso dei brevi tentativi preparatori. Di fatto la ricerca quantitativa ci dice che esiste una correlazione forte tra la probabilità di troncare definitivamente un rapporto maltrattante ed il numero di precedenti separazioni. Come illustrano due ricercatrici (Lerner e Kennedy, 2000), la tentazione al ritorno appare inversamente proporzionale alla self-efficacy della donna in un dato momento. Nei primi 6 mesi dopo la separazione vi è il massimo di vulnerabilità, di tentazione a tornare e sintomi legati al trauma (disturbi del sonno, depressione, dissociazione), che tendono a decrescere nel tempo di pari passo con l’aumento della fiducia in sé. Dopo un anno fuori dalla relazione abusante, avviene l’inversione di tendenza: i livelli di self-efficacy sorpassano la tentazione di tornare indietro.
Come è facile intuire, sposare un’ottica di tipo processuale aiuta le operatrici a sospendere il giudizio nei confronti della donna e rende più agevole individuare quei fattori e quelle abilità che possono essere rinforzate in un progetto razionale di uscita dalla violenza. Viceversa, pensare che lasciare il partner violento sia una singola decisione da ricondurre ad una questione di volontà individuale, rende più facile vedere solo i fallimenti della donna, le sue inadeguatezze, i suoi deficit.

La consulenza psicologica in un centro anti-violenza

Compito del centro antiviolenza è di accompagnare la donna e sostenerla almeno in una parte di questo processo. La richiesta d’aiuto può arrivare in qualunque fase e la consulenza si deve naturalmente adattare agli specifici bisogni di quella fase.
Per quanto riguarda la specificità della consulenza psicologica, essa mira a facilitare quei cambiamenti a livello cognitivo, emotivo e comportamentale che vanno nella direzione di una crescente capacità di tutelare la propria sicurezza (a prescindere che la donna voglia o meno interrompere il rapporto), di contrastare il processo di vittimizzazione e di addivenire ad un progetto per la propria vita autonoma e libera dalla violenza. Di seguito uno schema illustrativo con esempi di azioni nelle varie fasi del processo di uscita dalla violenza.

All’interno della relazione
Educare a riconoscere i vari tipi di violenza
Informare sull’impatto della violenza domestica sulla salute fisica e psicologica
Spiegare le conseguenze della violenza diretta e/o assistita sui bambini
Fornire una interpretazione alternativa della realtà
Descrivere il ciclo della violenza
Ridefinire la situazione come abuso
Insegnare a riconoscere i segnali premonitori dell’escalation violenta
Insegnare la tecnica del time-out, per arrestare l’escalation

Fase di separazione
Fornire riferimenti e contatti
Dare informazioni specifiche su servizi e risorse del territorio
Sostenere la motivazione al cambiamento e il senso di auto-efficacia

Post-separazione
Ascoltare difficoltà e dubbi, dare conferme
Sottolineare i progressi che sta ottenendo
Sostenere il benessere psicologico rinforzando i fattori protettivi
Rielaborare i ricordi dolorosi
Insegnare strategie per difendersi dallo stalking
Migliorare l’assertività

Eventuale ritorno
Analizzare i motivi che l’hanno indotta a tornare
Rinforzare i risultati ottenuti
Consolidare le abilità e le strategie di coping acquisite

L’importanza di personalizzare la consulenza rispetto alla fase in cui si trova la donna non ha a che fare solo con una valutazione dell’efficacia del nostro intervento (ad esempio, è inutile prospettarle un piano di fuga se lei non ha chiare le conseguenze nefaste della violenza ed ha una tendenza a minimizzarla), ma anche con evidenze legate alla sicurezza (ad esempio, mirare ad aumentare i comportamenti di autonomia e a rafforzarne l’assertività può metterla a rischio di violenze più gravi finché è ancora all’interno di un rapporto totalmente controllante).
Il racconto che la donna fa della sua esperienza di violenza può essere anche molto lungo ed arrivare a riferire di esperienze dell’infanzia che lei ritiene essere all’origine delle sue attuali difficoltà. Sono le situazioni in cui la donna sente di essere portatrice di una sorta di “vulnerabilità” personale che la rende fragile di fronte all’aggressività o al controllo del partner attuale. Naturalmente uno spazio di ascolto viene offerto e la sofferenza della donna accolta. Tuttavia un’analisi approfondita di questo livello attiene ad una vera e propria psicoterapia, servizio che il CAV non effettua. Di conseguenza è necessario che l’assessment e la restituzione alla donna di quanto emerso dalla nostra valutazione rimangano focalizzati maggiormente sul presente e sui fattori di mantenimento delle problematiche attuali piuttosto che sui fattori predisponenti.
Vengono quindi analizzati gli episodi di violenza, gli stimoli che scatenano la rabbia dell’uomo, i comportamenti disfunzionali della donna nel gestire l’escalation violenta. Si ricostruisce l’andamento della violenza nel tempo, in termini di frequenza ed intensità, per mostrare alla donna la tendenza all’aggravamento e portandola alla constatazione che le sue speranze di poter cambiare il partner non sono precisamente ben riposte (qui si va a colpo sicuro, perché non succede mai che l’andamento della violenza nel tempo sia decrescente!).
Si prendono in esame le spiegazioni che la donna si dà di questa violenza, perché sappiamo come determinate idee disfunzionali possano avere un ruolo cruciale nel tenerla bloccata. Si ascoltano i ragionamenti talvolta confusi, per trovarne una logica e darne una spiegazione, come quando la donna riferisce di avere la sensazione di avere davanti un uomo doppio, un Jekyll e Hyde, o dichiara che è probabilmente affetto da personalità multiple e le si mostra come è invece lo stesso uomo, con una personalità ben precisa e un preciso bisogno di controllo, che la picchia per avere questo controllo e poi sempre assecondando lo stesso bisogno la implora di non lasciarlo perché la ama e non può vivere senza di lei. Si aiuta la donna a farsi chiarezza relativamente ai suoi sentimenti molteplici e contrastanti, per un uomo che sente di amare, odiare, compatire, temere, dando legittimità a tutte queste emozioni.
Si analizzano una ad una le strategie che la donna ha tentato nel tempo e senza troppo successo per arrestare la violenza, rinforzando comunque la sua forza, determinazione, capacità di farsi venire idee sempre diverse, perché sappiamo che al di là del fatto che queste strategie non hanno funzionato all’interno di una relazione dove il suo potere è nullo, la loro variabilità è comunque indice di una abilità di problem solving che la donna possiede e che le sarà utile nel fronteggiare le sfide del dopo separazione. Si ricostruiscono tutte le volte che ha chiesto aiuto e le è stata data una risposta che l’ha fatta sentire ancora più umiliata, sola, colpevole e le si spiega il ruolo degli stereotipi di genere nel modellare risposte quali: “Signora, non lo denunci, è pur sempre suo marito!” o “Per il bene dei suoi figli, ci passi sopra e fate pace.”
Tanto basta a ridare alla donna una idea di dignità personale che aveva perso, scrollandosi di dosso ingiusti sensi di colpa e attivare la sua motivazione al cambiamento. Si tratta di una restituzione con un potere ristrutturante potente, formulata in modo da facilitare il problem solving, senza necessità di sondare i traumi di un lontano passato, che meritano certamente di essere analizzati e rielaborati, ma in un setting terapeutico – molto diverso da quello che il CAV è in grado di offrire – e soprattutto in un tempo successivo alla uscita dalla spirale della violenza. Finché ne è prigioniera, infatti, tutte le sue energie fisiche e mentali saranno orientate a contrastare la rabbia e l’aggressività del partner, starà per forza di cose in uno stato di allerta continuo per una minaccia presente e reale, e difficilmente avrà la giusta disposizione mentale per affrontare un percorso lungo ed impegnativo come una psicoterapia.

Conclusioni

Fare l’operatrice di un centro-anti-violenza non è un lavoro e basta. Chi vuole la nostra assistenza non è una vittima e basta, e noi non siamo psicologhe e basta. Quando una psicologa donna e una donna maltrattata si incontrano, il fatto di appartenere entrambe al genere femminile non è insignificante e non è un fatto neutro. È un’esperienza esistenziale, che ci obbliga a rimettere in discussione l’ordine del mondo e a leggerlo con gli occhi dell’oppressione. È un’esperienza che ci catapulta giù dalla comoda seggiola di una discutibile neutralità per fare la scelta coraggiosa di stare con lei. “Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima” (Elie Wiesel).

Bibliografia

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– Walker L.E.A. (2009) – The battered woman syndrome. Springer Publishing

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Sopravvivere alla violenza

Sopravvivere alla violenza

La violenza lascia dei segni, non solo fisici. Una donna che ha subito maltrattamenti può sentirsi annullata, priva di valore, incapace, indegna di affetto, spaventata, o addirittura colpevole degli stessi abusi di cui è stata vittima.

La strada per ricostruire se stessa e una vita soddisfacente passa attraverso 4 “A”:

Autostima

In opposizione alla squalifica e alla denigrazione, è possibile ricominciare a credere in se stesse e costruirsi un’immagine di sé positiva, di valore e dignità personale.

Autonomia

In opposizione alla limitazione della libertà e alla dipendenza, è possibile ristabilire un giusto livello di auto-determinazione, indipendenza e affermazione personale.

Assertività

In opposizione all’isolamento e alla passività, è possibile allargare la propria rete sociale e comunicare con gli altri in modo positivo, autentico, assertivo.

Affettività

In opposizione alla sottomissione, all’esagerata gelosia e al controllo, è possibile ricominciare a stabilire relazioni affettive caratterizzate dal rispetto e dalla parità.

Chi è uscito da una storia di abusi e di sopraffazioni non ha un destino segnato di sofferenza e sottomissione. La violenza cambia le persone, che però hanno sempre la possibilità di prefiggersi quegli obiettivi di crescita personale che la violenza ha ostacolato, inibito, frustrato per molto tempo.

A volte, per riprendere contatto con la persona che si era prima di attraversare l’inferno degli abusi, è necessario uno spazio in cui poter dire l’indicibile, estrarlo da sé, analizzarlo prima di accantonarlo. Infine, riposizionare lo sguardo sul presente e sul futuro e sulla nuova vita che ci si ripropone.

I servizi del “Cerchio di Banpo”

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Dolore cronico

Dolore cronico

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è in grado di incidere in modo significativo sulla qualità della vita di una persona con dolore cronico. E’ infatti un tipo di approccio terapeutico che mette a fuoco il qui-e-ora, modificando gli atteggiamenti che potrebbero finire per alimentare circoli viziosi capaci di aumentare la percezione soggettiva del dolore.

La terapia cognitivo-comportamentale non entra nel merito delle cause dei disturbi che procurano dolori cronici, come ad esempio la fibromialgia, né pretende di guarirli, ma, come dimostrato da molti studi sull’efficacia, è in grado di favorire il funzionamento fisico generale e la riduzione del livello di disabilità, attraverso tecniche di rilassamento muscolare progressivo, stress management, self-management attivo del dolore, regolarizzazione dei ritmi di attività, igiene del sonno, ma anche tecniche di tipo cognitivo volte a costruire un diverso atteggiamento nei confronti dello stimolo dolorifico e a stoppare infruttuose rimuginazioni sul dolore. Il dolore non è solo fisico: le emozioni hanno un ruolo nell’esperienza del dolore. Ad esempio la paura amplifica lo stimolo dolorifico: più ci si preoccupa per il dolore, più fa male.

In letteratura si ritiene che un approccio multidisciplinare sia più efficace nel ridurre l’interferenza del dolore con la vita quotidiana delle persone. Integrandosi con le terapie mediche ed approcci naturali basati sull’esercizio fisico, la terapia cognitivo-comportamentale è in grado di apportare un reale contributo al benessere psicofisico delle persone con fibromialgia o altri disturbi organici che comportano dolore cronico.

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Burnout professionale

Burnout professionale

Quando si impegnano molto tempo e sforzi per il proprio lavoro e se ne riceve in cambio solo stress e pochissima gratificazione, a lungo termine questo può produrre una condizione di burnout. Ci si sente esausti, senza motivazione, apatici, ansiosi, sopraffatti, con un senso di vuoto. Il lavoro perde significato, vanno perdute le ambizioni e gli interessi che un tempo erano invece vivi e presenti.

Le cause possono risiedere in uno sbilanciamento tra le responsabilità crescenti e la personale capacità di farvi fronte; un lavoro ripetitivo e noioso, poco creativo e variabile, molte ore di lavoro e magari il portarsi il lavoro a casa, il restringimento delle attività piacevoli, della vita sociale, del tempo dedicato agli hobbies; il fatto di non ricevere le promozioni o i riconoscimenti economici che si ritiene di meritare dopo molti anni di “fedeltà” alla stessa azienda.

Una consulenza su questo tipo di problematica può identificare le cause del burnout, fornire gli strumenti per meglio gestire lo stress, trovare il coraggio di intraprendere una nuova carriera professionale, oppure migliorare le abilità comunicative per creare un ambiente lavorativo più piacevole, imparare a stabilire confini, a dire “no”, a ripristinare una adeguata e soddisfacente vita privata e sociale.

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