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Anno: 2017

Depressione al femminile

Depressione al femminile

La ricerca ha più volte evidenziato che le donne sono più vulnerabili alla depressione rispetto agli uomini. Analizziamo i motivi per cui questo è vero.

La predisposizione alla depressione è il prodotto della storia di vita: le persone che hanno appreso una visione pessimistica e il senso di impotenza di fronte agli eventi, hanno una maggiore probabilità di incorrere in una sintomatologia depressiva, di solito in seguito a eventi cosiddetti “precipitanti”, cioè situazioni problematiche, difficili o critiche che richiedono capacità di problem solving e di azione tenace, perseverante, efficace. Di fronte a questo tipo di stress, gli individui più predisposti alla depressione rispondono in modo inadeguato e inefficace, fallendo nel raggiungimento dei propri obiettivi. Le convinzioni pessimistiche della persona e il suo senso di impotenza si rafforzano in seguito al fallimento, e la probabilità di ritrovarsi in una nuova situazione di stress aumenta. A questo punto diventa un circolo vizioso.

Si è tanto più protetti dal rischio di depressione quanto più alto è il livello di AUTOEFFICACIA, cioè la sensazione di essere efficaci nel gestire gli eventi, la fiducia di possedere le capacità di affrontare e risolvere un problema, la convinzione di poter raggiungere determinati risultati mettendo in atto precisi comportamenti. L’autoefficacia si apprende nella vita, attraverso l’osservazione del comportamento altrui, attraverso l’incoraggiamento ricevuto da bambini nell’affrontare sfide via via più difficili, attraverso l’esperienza di successi nel superare tali sfide.

Questo è vero sia per gli uomini che per le donne. Allora perché queste ultime sono maggiormente esposte al rischio di depressione? La biologia non sembra riuscire a dare spiegazioni in merito, mentre la psicologia sociale sì, andando ad investigare la socializzazione dei bambini e delle bambine.

Nella maggiore predisposizione femminile alla depressione ha un ruolo fondamentale il PATERNALISMO.

In un setting sociale altamente paternalistico, un individuo può contare su altri per risolvere un problema o affrontare una sfida di vita, evitando di assumersi in prima persona le responsabilità, con la conseguenza di avere ridotte opportunità di assumersi dei rischi e di perfezionare le abilità e le competenze necessarie per fronteggiare in prima persona le difficoltà. Questo avviene sia per i bambini che per le bambine, dai quali naturalmente non ci si aspetta che siano da soli in grado di gestire delle situazioni problematiche. Al crescere dell’età, tuttavia, le bambine e le ragazze permangono in un setting paternalistico per un tempo maggiore rispetto ai bambini e ai ragazzi, probabilmente sulla base di stereotipi che etichettano le femmine come più delicate, fragili e bisognose di aiuto e protezione. Mentre i maschi vengono più facilmente incoraggiati a confrontarsi con la realtà, assumersi rischi ed essere attivi, dalle femmine ci si aspetta maggiore cautela, passività e una minore capacità di cavarsela da sole. Il risultato è che queste ultime, di fronte ad un problema, vengono meno spesso incoraggiate a confrontarsi da sole, ottengono più facilmente informazioni e consigli sul da farsi o addirittura trovano qualcuno che si sostituisce a loro nell’azione. Anche da adulte le donne, secondo un codice non scritto di norme sociali, si suppone debbano essere protette e guidate, mentre si suppone che gli uomini siano più capaci ed esperti.

Come si può intuire, l’atteggiamento paternalista incide pesantemente sul senso di autoefficacia e sull’esperienza di vita delle donne, che effettivamente avranno una maggiore probabilità di dubitare delle proprie capacità, di percepirsi deboli, vulnerabili e fragili di fronte alla vita e quindi più predisposte alla depressione.

Naturalmente questo non è un destino inevitabile: la cultura sessista sta cambiando nel tempo, le donne hanno via via sempre più opportunità di mostrare il proprio valore e di costruirsi una percezione di sé diversa rispetto a decenni o secoli fa. Una percezione di forza e competenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, avere un confronto professionale per comprendere come questi aspetti possano aver influito sulla propria vita può essere importante.

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I benefici della vita da single

I benefici della vita da single

È opinione diffusa che le persone single sono destinate ad essere infelici e depresse nella loro vita. Ma è davvero così?

La pressione al matrimonio e al “vissero per sempre felici e contenti” l’abbiamo sentita tutti/e. Molta parte della produzione letteraria e cinematografica sembra suggerire esattamente questa idea: trovare l’amore della vita e sposarlo è rappresentato come il massimo della realizzazione personale e garanzia di felicità.  Ci sono anche molti studi scientifici che collegano il matrimonio con la salute ed il benessere delle persone.

La psicologa sociale Bella DePaulo, dell’Università della California, grazie alle sue ricerche iniziate negli anni ’90, infrange questa credenza diffusa. Ci sono molte persone che sono single, alcuni in attesa della “persona giusta”, ma altri felici della loro libera scelta di essere e rimanere tali.

Per prima cosa, essere single non vuol dire essere soli. Anzi. Le ricerche sembrano indicare che, mentre gli sposati tendono a relazionarsi soprattutto all’interno del proprio nucleo, i single appaiono più “connessi” con la famiglia allargata, gli amici, i vicini e i colleghi di lavoro.

Sul piano della realizzazione personale, i single sono maggiormente tesi alla ricerca di un lavoro pienamente gratificante e significativo per loro, oltre ad essere più propensi alle attività di volontariato.

È inoltre più facile che un single percepisca un senso di crescita psicologica e si sviluppi in quanto individuo, e dovendo cavarsela più spesso da solo, è più autosufficiente, con una maggiore fiducia in se stesso, e meno propenso a sperimentare momenti di scoraggiamento.

E quindi, sostiene DePaulo, “molte delle cose terribili che si dice debbano accadere ai single, non trovano riscontro nella ricerca.”

È vero che molte persone traggono benefici dal matrimonio. Tuttavia le persone sono diverse, e ciò che porta benefici ad alcuni, non ne porta ad altri. Insomma, non c’è uno status migliore dell’altro. La verità è che non esiste una strada maestra per la felicità e la vita dei single può essere davvero molto piacevole, intensa e piena di significato.

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Superare il trauma

Superare il trauma

L’esperienza di un evento traumatico può sconvolgere la vita di una persona, lasciandole un senso di vulnerabilità e di paura. Ma recuperare serenità e fiducia è possibile.

Si può definire trauma un evento percepito come estremamente minaccioso a cui la persona ha risposto con un livello di paura intenso, senso di impotenza e orrore.

Tipici eventi traumatici possono essere: esperienze di guerra, aggressioni fisiche o sessuali, assistere alla morte di qualcuno in un incidente, oppure nel corso di terremoti, alluvioni, incendi, ecc. Spesso ha a che fare col “vedere la morte in faccia”.

È importante sottolineare che il trauma è un fatto molto personale. Siamo noi a dare significato e peso a quello che ci succede, facendo sì che quello che è traumatico per qualcuno potrebbe essere una esperienza semplicemente negativa per qualcun altro. Questa variabilità ha che fare con il sistema di credenze e di valori di ciascuno e con le precedenti esperienze di vita. Vi è una variabilità anche nella capacità di recupero: alcune persone possono impiegare alcune settimane o mesi dopo l’incidente prima di tornare a condurre una vita soddisfacente anche con il sostegno di familiari e amici. Per altri invece il recupero non è così semplice e talvolta si può arrivare al Disturbo post-traumatico da stress.

Il Disturbo post-traumatico da stress origina dalla risposta fisiologica dell’organismo allo stress estremo, ma con una sintomatologia che si protrae nel tempo, anche quando la minaccia è cessata. Questo avviene perché quanto sperimentato ha la capacità di modificare la percezione di se stessi e del mondo. L’esperienza ribalta sia la percezione di un mondo bello e giusto, sia l’idea di se stessi, di essere forti, capaci e adeguati. A questo punto la persona vede ovunque il pericolo e sta costantemente in allerta, in guardia, sulla difensiva.

Questo può portare a difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, irritabilità, irrequietezza. Possono comparire pensieri intrusivi (immagini e ricordi dell’evento traumatico), incubi, flashback (rivivere l’evento come se stesse accadendo qui e ora). Infine vi possono essere comportamenti di evitamento di tutto ciò che può ricordare l’evento traumatico, allo scopo di limitare l’esperienza di ansia; di conseguenza si limita pesantemente la vita, ci si isola, si limitano attività precedentemente considerate piacevoli e si può andare verso la depressione.

La psicoterapia in questi casi può sostenere la rielaborazione dell’esperienza traumatica, rafforzare la capacità di far fronte a situazioni che spaventano e trasferire strategie di gestione dello stress.

Guarire in questi casi non significa dimenticare quanto accaduto e nemmeno avere la garanzia che non si proveranno più emozioni negative al ricordo dell’evento traumatico. Ma questo stress può diventare meno frequente e più gestibile, al punto da perdere il potere di controllare la vita di una persona. Guarire non significa nemmeno tornare esattamente come si era prima. Esperienze forti possono cambiare le persone in molti modi, non necessariamente negativi. Si può diventare più forti, più comprensivi, più equilibrati e aperti.

Un trauma non stabilisce un destino

La dott.ssa Grilli ha una esperienza pluriennale nella terapia in questo ambito, in particolare rispetto al Disturbo post traumatico sperimentato dalle vittime di aggressioni fisiche e sessuali o dai sopravvissuti a eventi catastrofici.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, un supporto psicologico qualificato può essere determinante.

Link alle risorse dell’American Psychological Association.

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Il ciclo dell’ansia

Il ciclo dell’ansia

L’ansia è una reazione normale e sana, ma potrebbe diventare cronica attraverso il meccanismo definito “ciclo dell’ansia”.

L’ansia costituita da una serie di cambiamenti nel corpo e nel modo di pensare e comportarsi che ci permette di fronteggiare e rispondere rapidamente a minacce e pericoli per la nostra vita.

Facciamo un esempio.

Stai attraversando la strada fuori dalle strisce pedonali. A un certo punto vedi che un’auto sta sopraggiungendo velocemente e non accenna a rallentare per permetterti di completare l’attraversamento. Allora inizi a correre per metterti in salvo sul marciapiede qualche metro più in là. Il cervello rileva il pericolo e in automatico il corpo si attiva:

  • Il battito cardiaco accelera e la pressione del sangue aumenta;
  • La capacità del sangue di coagularsi aumenta, in preparazione ad una possibile lesione;
  • La sudorazione aumenta, per aiutare a raffreddare il corpo;
  • Una quantità di sangue è dirottata sui muscoli, che si tendono, pronti all’azione;
  • La digestione rallenta;
  • Diminuisce la produzione di saliva, causando secchezza delle fauci;
  • Il ritmo del respiro accelera, le narici e i passaggi di aria si dilatano, per far affluire velocemente più ossigeno;
  • Il fegato rilascia zuccheri, per fornire energia;
  • Gli sfinteri si contraggono per chiudere intestino e vescica;
  • Le risposte immunitarie si indeboliscono, il che è utile a breve termine per permettere una risposta massiccia all’immediato pericolo.

Tutto questo accade per permetterti di raggiungere velocemente il marciapiede ed evitare di venire investito.

Questa reazione, definita di “attacco-fuga”, è la stessa che sperimentiamo quando siamo in ansia, spaventati, preoccupati, agitati. Nel corpo puoi osservare alcune delle seguenti sensazioni (in misura maggiore o minore a seconda dell’entità della minaccia percepita):

  • Tremori;
  • Irrequietezza;
  • Tensione muscolare;
  • Sudorazione;
  • Fiato corto;
  • Tachicardia;
  • Tuffo al cuore;
  • Mani fredde e sudate;
  • Respiro affannoso;
  • Secchezza delle fauci;
  • Vampate di calore o brividi;
  • Nausea;
  • “Farfalle” nello stomaco.

Ora, la risposta del nostro corpo è identica, sia che la minaccia vada affrontata con uno sforzo fisico, sia che dobbiamo rispondere verbalmente a una critica aggressiva di un collega, oppure che temiamo una figuraccia parlando davanti a un pubblico, oppure che il medico ci dà una cattiva notizia sulla nostra salute, casi cioè in cui la soluzione non è certo combattere o mettersi a correre. La biologia è veramente di poco diversa da quella che caratterizzava i nostri antenati alle prese con un animale feroce. E perciò facciamocene una ragione, è così che funzioniamo.

A un certo punto però, può accadere qualcosa di più, alle persone più propense a preoccuparsi o ad allarmarsi eccessivamente. Osservando la propria reazione d’ansia, ne sono disturbati e iniziano a preoccuparsi per l’ansia stessa. Alcuni esempi di pensieri di preoccupazione:

  • Ancora una volta sto dimostrando di essere debole;
  • Sono troppo emotivo, non so affrontare le situazioni;
  • Vedendomi così, le persone penseranno che sono incapace;
  • Il cuore batte troppo velocemente … mi starà venendo un infarto?
  • Sono arrossito, che vergogna!

Ciò causa, naturalmente, una ulteriore attivazione del sistema attacco-fuga, portando ad un circolo vizioso. Se non si riesce a interrompere questo circolo, il problema d’ansia diventa cronico.

Desideri un aiuto per identificare il tuo ciclo dell’ansia e i fattori di mantenimento che lo tengono in vita?

Approfondisci i vari disturbi d’ansia

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La fibromialgia

La fibromialgia

La fibromialgia è un disturbo caratterizzato da dolore diffuso nella maggior parte del corpo, i cui gli aspetti psicologici non possono essere ignorati. A lungo si è dibattuto, fin dal suo riconoscimento nel 1990, se non sia da classificare piuttosto come disturbo psicosomatico, data la rilevanza della sintomatologia d’ansia e/o depressiva che spesso l’accompagna. L’eziologia ignota è il principale elemento che determina questa difficoltà di classificazione.

Chi soffre di fibromialgia ha i muscoli in costante tensione, il che provoca non solo dolore, ma anche rigidità che limita i movimenti, spossatezza, affaticamento per minimi sforzi, sonno mai profondo, ripetuti risvegli, stanchezza al mattino, oppure sindromi funzionali somatiche come la colite spastica. La maggior parte dei pazienti lamenta un livello di disabilità considerevole ed una diminuita qualità della vita.

La tensione muscolare si riflette a livello dei tendini che diventano dolenti in particolare nei loro punti di inserzione: questi punti dolenti, evocabili durante la visita medica con la semplice palpazione, sono una caratteristica peculiare della fibromialgia e vengono definiti “tender points”. Il dolore in questi punti è solo parte della sintomatologia, che può implicare anche altri sintomi sia fisici che cognitivi: affaticabilità, sonno non ristoratore, insonnia, colite spastica, emicranie, crampi addominali, debolezza, nausea, dolori al petto, fischi alle orecchie, vertigini, attenzione costante al dolore, drammatizzazione.

Se i fattori causativi della fibromialgia rimangono un punto di domanda, i fattori di mantenimento sono stati maggiormente esplorati alla luce della teoria di Melzack e Wall (Gate-control theory) e del modello biopsicosociale del dolore. In quest’ottica, il dolore è un fenomeno complesso e dinamico influenzato non solo dall’input sensoriale, ma anche da fattori cognitivi, emotivi, comportamentali, culturali e sociali. Ad esempio vi sono evidenze rispetto al ruolo della catastrofizzazione nel modellare l’esperienza di dolore contribuendo all’aumento della sua intensità percepita. La catastrofizzazione comporta rimuginazione sul dolore, sentimenti di impotenza e un orientamento generalmente pessimistico rispetto all’esperienza dolorifica e alle sue conseguenze. In questo senso è un elemento che sembra giustificare la frequente comorbidità tra fibromialgia e sintomatologia depressiva.

Accanto alle terapie farmacologiche che mirano alla riduzione del dolore, vi sono le terapie non farmacologiche. La letteratura internazionale sull’argomento riporta che un approccio multidisciplinare è in genere più efficace rispetto alle terapie singole.

Tra gli approcci alla fibromialgia maggiormente supportati empiricamente vi è la terapia cognitivo-comportamentale, che agisce nella direzione di evidenziare e correggere convinzioni e aspettative maladattive che mantengono ed esacerbano i sintomi e a modificare l’atteggiamento verso il dolore, incrementando le abilità di self-management e l’apprendimento di strategie di fronteggiamento dei sintomi.

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La manipolazione affettiva

La manipolazione affettiva

Manipolare significa letteralmente “lavorare con le mani”, “influenzare una persona, farle fare ciò che vuoi.” È di fatto una forma di violenza psicologica e quando avviene all’interno di una relazione sentimentale può avere effetti deleteri sul benessere psicologico, sull’autostima e sulla libertà.

L’obiettivo più o meno consapevole della manipolazione è avere potere sull’altra persona, farla sentire sbagliata usando però modi gentili. Crea dipendenza, rende vulnerabili, porta a mettere in atto comportamenti che non si vorrebbero. Ed è difficile da riconoscere proprio perché mascherata dietro modi che non solo palesemente aggressivi o violenti.

Per diventare più capaci di riconoscerla, vediamo alcune forme che concretamente può prendere la manipolazione. Faccio presente che gli esempi riportati di seguito vedono l’uomo come manipolatore e la donna come vittima di questa manipolazione per due motivi: primo, perché è il caso più frequente (in un sistema ancora patriarcale, sono gli uomini ad essere incoraggiati ad avere potere su una donna e sono le donne a venire educate ad essere sottomesse e disponibili); secondo, perché le presenti riflessioni scaturiscono dal mio lavoro con le donne vittime di violenza ed è a partire dalle loro storie che ho estrapolato gli esempi. Tuttavia, è del tutto evidente che i ruoli potrebbero essere invertiti in alcuni casi e interessare anche le coppie omosessuali.

Esempi di manipolazione affettiva

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti sta dicendo che non vai bene

Il messaggio positivo, di amore, ha decisamente più peso sul piano emotivo, e permette di far passare l’altro messaggio: che hai qualcosa di sbagliato.

“Sei bruttina però ti amo lo stesso.”
“Mi piaci tanto, anche se sei cicciottella.”
“Ho un debole per te, sciocchina”.

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti fa capire che non ce la farai senza di lui oppure che nessun altro ti vorrà

Come sopra, lo zucchero indora la pillola amara: ti sta dicendo che sei rifiutabile, non amabile, indegna di affetto, incapace, inetta.

“Non ti amerà mai nessuno come ti amo io.”
“Non troverai mai nessuno come me.”
“Non ne combini una giusta … che faresti se non ci fossi io che mi preoccupo per te …”

Ti dice che ti ama, ma ti ricatta

Una potente manipolazione fa leva sull’attaccamento affettivo per ottenere qualcosa da te.

“Se mi ami quanto ti amo io, fai come dico.”
“Se tu continui a fare di testa tua, io sarò costretto a …”
“Dai, non uscire con la tua amica, stai con me. Scegli: o lei o me!”

Ti dice che ti ama, ma fa la vittima

Si tratta di un rovesciamento dei ruoli: porsi nella posizione di vittima sofferente, ma lo scopo è quello di ottenere controllo su di te, facendoti sentire in colpa.

“Io così non ce la faccio più, ti amo da morire, ma mi fai soffrire troppo!”
“Siete tutti contro di me, anche tu che dovresti amarmi non mi aiuti.”
“Se mi devi trattare così, è meglio che la faccio finita!”

Usa parole gentili, ma dice bugie, ti fa credere cose non vere, nega l’evidenza

Questo tipo di manipolazione mira a far vacillare la tua percezione della realtà, facendoti dubitare di te stessa. Più crescono i tuoi dubbi, più lui ottiene potere su di te.

“Ti sbagli, io non ho mai fatto quello che dici …”
“Come puoi lontanamente pensare che … non hai capito niente!”
“Hai frainteso, le cose non sono affatto andate così.”

Usa parole gentili, ma nega ogni responsabilità personale e alla fine la colpa è sempre tua

Il manipolatore è tipicamente una persona che non si assume responsabilità, non vede i propri errori e non li riconosce; cerca di convincerti che sei tu ad aver interamente provocato la situazione problematica di cui si sta discutendo.

“Se io faccio così, è perché tu …”
“Se non fosse per i tuoi problemi, potremmo essere più felici.”

Come capisco che sono vittima di manipolazione

Ascolto i miei sentimenti

Se mi sento spesso inadeguata, incapace, o in colpa; se sperimento frequentemente disagio, timori, dubbi su di me … c’è qualcosa che non va che merita di essere messo meglio a fuoco. In una relazione che funziona, infatti, sebbene possano esserci problemi, ci si valorizza a vicenda, si rispettano i sentimenti di entrambi, ci si conferma a vicenda, ci si rinforza.

Mi domando: lui mi porta a fare cose che non farei mai di mia volontà?

Voglio veramente fare quello che lui mi chiede? Sono sempre io che mi sacrifico? Ho del tempo libero per me, oppure è sempre tutto per lui? Come mi sento a fare scelte libere, sostenuta e valorizzata oppure in colpa? Rimettere a fuoco se stessi, il proprio punto di vista, i propri obiettivi è un potente antidoto contro la manipolazione.

Osservo come vanno a finire le discussioni

Riesco a dire le mie ragioni o no? Chi dei due fa un passo indietro: sempre io o anche lui a volte? Chi chiede scusa all’altro? Chi vince di solito? Se la valutazione è fortemente sbilanciata in suo favore ed è sempre lui ad avere la meglio per un motivo o per l’altro, il rapporto non è veramente alla pari. Forse sto cedendo un po’ troppo spesso?

Cosa posso fare?

  • Mi fido delle mie sensazioni, della mia intelligenza, della mia memoria. Sebbene a volte io possa sbagliare, non può essere che io mi sbagli sempre!
  • Mi prendo le mie responsabilità, ma non tutte le responsabilità. Nei problemi di coppia entrambi hanno un ruolo; se lui non è abbastanza maturo da prendersi le sue colpe, non ci sono le basi per venirne fuori.
  • Dico “no” se quello che mi viene chiesto non va bene per me. E non mi sento in colpa, perché è un mio diritto dire no. In una coppia va bene venirsi incontro, ma attenzione che non sia un processo unidirezionale!
  • Se ho dei dubbi, chiedo consiglio a persone di cui mi fido. Un punto di vista esterno può aiutarmi a riconquistare obiettività sulla situazione.
  • Valuto se continuare la relazione o no. È difficile che auto-sacrificarmi e mettermi in una posizione di subalternità mi possa rendere felice.

Se hai questo tipo di esperienza, non è escluso che stai vivendo all’interno di una relazione che può diventare maltrattante. Scopri come con un percorso di sostegno è possibile ottenere aiuto per fronteggiare la violenza e gli obiettivi che ci si può porre sul piano psicologico in un percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile avere un parere professionale in merito.

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Difendere i propri confini in quattro mosse

Difendere i propri confini in quattro mosse

I nostri confini rappresentano i limiti che poniamo a noi stessi e agli altri.

Non è sempre facile difendere il nostro confine, in particolare quando per il rapporto che ci lega, proviamo senso di colpa o timore di offendere l’altra persona. Potremmo sperimentare paura del rifiuto, oppure timore del confronto con l’altro, che potrebbe diventare conflitto. Finiamo così per accettare situazioni che non ci piacciono o che non ci fanno sentire a nostro agio.

  • Rispondi alle emergenze altrui come fossero le tue?
  • Dici dei “sì” che non vorresti veramente dire?
  • Condividi troppe informazioni e fatti personali, non riuscendo a gestire l’invadenza?
  • Oppure al contrario, rinunci a priori ad esprimere i tuoi bisogni ed essere ascoltato?

Può darsi allora che sia il caso di mettere a fuoco il tuo confine personale e iniziare a difenderlo. Stabilire un confine non è da maleducati. Può essere fatto in modo rispettoso e positivo. Il vantaggio per se stessi ha a che fare con la sicurezza e il benessere, la sensazione di integrità personale e una più solida consapevolezza del proprio valore.

Ma è anche il rapporto a trarne beneficio. Assecondando e accontentando sempre l’altro, pensiamo erroneamente di non creare problemi e quindi di rafforzare una amicizia. Tuttavia non ci fa stare bene il fatto di sistematicamente sacrificare i bisogni personali per soddisfare quelli altrui. Ci si sente in balia degli altri e ci porta a provare rabbia, finendo alla lunga per logorare un rapporto invece di salvaguardarlo. Esplicitare i propri bisogni e i propri limiti favorisce invece l’instaurarsi di un rapporto franco, autentico, alla pari e basato sul rispetto reciproco.

1. Ascolta come ti senti

Le emozioni negative sono sempre il campanello d’allarme che qualcosa non va. Rabbia, frustrazione, paura, abbattimento: se ci sono, vanno ascoltate per cercare di capire da cosa derivano. Quali sono i tuoi bisogni in quel momento? Perché non ti senti a tuo agio?

Alcuni esempi: la richiesta di un amico a cui hai risposto “sì” ti è giunta sgradita? Qualcuno ha parlato al posto tuo? Il tuo interlocutore non ti ascolta? L’intensità della tua emozione ti dice se puoi passarci sopra perché è oggettivamente tollerabile per te, oppure se è il caso di agire per stabilire il tuo confine.

2. Decidi quello che desideri per te

Una volta preso contatto con le tue esigenze, è importante stabilire qual è lo spazio all’interno del quale ti senti a tuo agio e quali sono le regole e le condizioni da porre agli altri quando si muovono in questo spazio: come vuoi essere trattato, come vuoi che ci si rivolga a te, se e come vuoi essere toccato, quali sono i valori e gli obiettivi personali a cui non vuoi rinunciare, ecc.

Entra nell’ottica che è un tuo diritto farlo.

3. Stabilisci un obiettivo comunicativo e agisci

Stabilisci il confine con una comunicazione chiara e coincisa, senza giustificazioni inutili ed esprimendo le tue emozioni. Fai una richiesta precisa, nel rispetto della tua volontà, dei tuoi bisogni e dei tuoi desideri.

Si tratta di dire “no” alla richiesta? Stoppare un atteggiamento invadente? Affermare il tuo punto di vista? Fallo in modo rispettoso, comprensivo, ma fermo.

4. Ricorda che non sei responsabile della risposta dell’altra persona

A patto di essere educati e rispettosi, non abbiamo la responsabilità della reazione dell’altro. Anche se la risposta non dovesse essere positiva, questo non è sufficiente ad annullare il tuo bisogno. Aggiusta il tiro magari, ma non indietreggiare.

E se anche accadesse che l’altro non mostra la volontà di considerare quello che gli stai dicendo e continua a violare il tuo confine, è comunque importante parlare; ha a che fare col rispetto che abbiamo per noi stessi. Se queste violazioni continuano nonostante le tue comunicazioni, considera che potresti avere a che fare con una persona violenta e prevaricatrice; valuta se non sia il caso di interrompere la relazione per proteggere la tua integrità.

Stabilire confini è un processo, attraverso il quale si diventa gradualmente più capaci. Non rinunciare se un tentativo fallisce. Apprendi dall’esperienza. Ricorda: non è mai troppo tardi per accorgersi che un confine merita di essere eretto. Ad esempio ci si può rendere conto ad un certo punto di aver condiviso troppe informazioni riservate a un nuovo collega di lavoro o che un’amica si sta comportando in modo un po’ squalificante nei tuoi confronti. Non è mai tardi per agire nella direzione di proteggere il proprio confine. 

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