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Anno: 2019

Protocollo Napoli

Protocollo Napoli

Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio

Questo studio recepisce e attua il “Protocollo Napoli”, le linee-guida in materia di consulenza psicologica in caso di violenza, nella cornice della Convenzione di Istanbul.

Nei casi di violenza domestica e violenza assistita da parte dei bambini, gli esperti possono essere chiamati a valutare le condizioni per l’affidamento dei figli nella fase di separazione. Affinché sia garantita la tutela psicofisica non solo dei minori ma anche delle loro madri, vi sono dei principi ineludibili ai quali richiamarsi per gestire il caso non come una comune separazione, ma una situazione nella quale la sicurezza delle vittime della violenza va messa al primo posto.

Le colleghe Caterina Arcidiacono, Antonella Bozzaotra, Gabriella Ferrari Bravo, Elvira Reale ed Ester Ricciardelli definiscono i seguenti punti:

a) Valutare la presenza di violenza domestica nei confronti della madre (IPV)
b) Sollecitare gli esperti a un sempre maggiore approfondimento della specificità
c) Promuovere la distinzione tra intervento psicologico valutativo e trattamento
d) Promuovere l’ascolto del minore, partendo dal diritto alla ‘Safety First’
e) Promuovere il Dovere-Diritto alla genitorialità (Art. 30 della Costituzione)
f) Promuovere l’adesione solo ai costrutti scientifici validati da organismi internazionali
g) Promuovere modalità di affido che non alterino le abitudini di vita del minore

Valutare se nella famiglia il padre agisce violenza fisica, psicologica, sessuale sulla madre è un elemento di primaria importanza, alla luce del quale comprendere eventuali inadeguatezze sul piano della genitorialità: per il padre in termini di pericolosità; per la madre in termini di sintomatologia traumatica da non confondere con disfunzioni o fragilità personali più strutturali.

Download del protocollo

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Laboratorio “Il cerchio di Banpo”

Laboratorio di assertività femminile

“Il cerchio di Banpo” è un percorso di gruppo strutturato centrato sull’assertività e l’affermazione personale delle donne.

Il programma del laboratorio ruota intorno a tecniche specifiche per rafforzare l’autostima, gestire emozioni e stati d’animo, porsi obiettivi di crescita personale e di sfida attiva delle proprie paure. Molto pragmatico ed esperienziale, permette di incrementare abilità specifiche e la fiducia nel proprio potenziale.

Se anche l’autostima è un fattore rilevante per tutti, anche per gli uomini, in una cultura ancora profondamente patriarcale sono le donne a pagare il prezzo più alto in termini di svalutazione, squalifica, sottostima del valore e delle capacità personali. L’autostima delle donne ha dunque una componente socio-culturale e politica che in questo laboratorio è oggetto di riflessione critica, accanto ai fattori individuali e familiari.

Di seguito alcune delle tematiche che possono essere affrontate:

  • Le specificità dell’autostima al femminile
  • Il rapporto col “femminile”
  • Il rapporto col “maschile”
  • I meccanismi di intrappolamento e svalutazione del potenziale
  • Costruirsi un’idea di valore personale
  • Difendersi dalla manipolazione affettiva
  • Interrompere i meccanismi che alimentano l’ansia
  • La paura: riconoscerla e sfidarla
  • La rabbia: riconoscerla e usarla in modo costruttivo
  • Difendere i propri confini e i propri diritti
  • Sopravvivere al perfezionismo
  • Costruire un rapporto sano col proprio corpo
  • La violenza di genere e le molestie: come difendersene

Il servizio è pensato per essere itinerante, a disposizione di qualunque realtà (associazioni, centri, sportelli antiviolenza, strutture d’accoglienza) che voglia avvalersene per sé e/o per la propria utenza.

I gruppi possono andare da un minimo di 8 a un massimo di 15 persone. A seconda della dimensione del gruppo e del contesto, il programma viene personalizzato. Anche il numero e la durata degli incontri può essere flessibile in base alle specifiche esigenze del gruppo.

I prossimi appuntamenti del “Cerchio di Banpo”:

Il Cerchio di Banpo 2 a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, in via Corridoni 21. Date: 9, 16 e 30 ottobre, 13 e 20 novembre 2023 – dalle ore 18 alle 20

Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano

Il Cerchio di Banpo a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, che gestisce il centro antiviolenza cittadino, in via Corridoni 21. Date: 17, 24 ottobre, 7, 14, 21 novembre 2022 – dalle ore 18 alle 20

Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano

Tutti i servizi del “Cerchio di Banpo”

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Supervisione di servizi antiviolenza

Supervisione di servizi antiviolenza

L’uscita dalla violenza è un percorso, composto da fasi, ognuna delle quali ha delle specificità.

Affiancare con efficacia una donna che subisce violenza significa innanzi tutto accantonare una serie di luoghi comuni e nozioni apparentemente intuitive per entrare nella logica di un processo complesso, articolato, costellato di ostacoli e di decisioni difficili. Le equipe dei centri antiviolenza e delle case rifugio possono beneficiare molto di una supervisione centrata sui casi, al fine di:

  • Rilevare, negli specifici casi, gli ostacoli non solo materiali, ma anche psicologici (attenzione: NON psicopatologici) alla fuoriuscita dalla violenza
  • Saper leggere nel caso specifico le conseguenze del trauma e le strategie di sopravvivenza
  • Capire in quale fase del percorso di fuoriuscita si trova la donna in un dato momento e definire strategie di accompagnamento alla successiva fase
  • Predisporre un piano di sicurezza
  • Fornire il giusto supporto per ogni stadio, in sintonia con i tempi della donna
  • Evitare gli errori più comuni per gli operatori/trici
  • Saper mettere in atto strategie efficaci per superare le fasi di stallo nel percorso
  • Comprendere come le dinamiche interpersonali all’interno del servizio possono interferire con l’accoglienza delle donne che chiedono aiuto.

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Formazione su violenza di genere

Formazione su violenza di genere

La violenza sulle donne segue un preciso pattern, uno schema ridondante che mira al potere e al controllo.

L’inizio della mia esperienza nel settore della violenza sulle donne risale al 2006. Negli anni ho collaborato col centro antiviolenza di Ancona “Donne e Giustizia”, con la casa rifugio per donne “Zefiro” e ho tenuto varie formazioni sulla violenza di genere.

Le tematiche di queste formazioni sono:

  • Le radici culturali della violenza di genere
  • Le dinamiche del potere e del controllo, il ciclo della violenza
  • Le conseguenze psicologiche della violenza
  • Linee guida per l’accoglienza delle donne vittime di violenza
  • Valutare il rischio di recidiva e di letalità della violenza
  • Valutare gli ostacoli esterni ed interni alla fuoriuscita dalla violenza
  • Valutare quanto la donna è pronta a fare azioni di fuoriuscita
  • Conoscere i processi decisionali nel percorso di fuoriuscita
  • Predisporre un piano di sicurezza e rimuovere gli ostacoli psicologici alla sua esecuzione
  • Le fasi del percorso di uscita dalla violenza e gli interventi idonei per ogni fase
  • Il sostegno psicologico per la donna ancora all’interno del ciclo della violenza
  • Il sostegno psicologico nel post-separazione: autonomia, assertività, autostima
  • Il sostegno in colloquio individuale e in gruppo

Gli altri servizi del “Cerchio di Banpo”

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Si rimugina troppo?

Si rimugina troppo?

Una grande parte dei disturbi depressivi o ansiosi va di pari passo con quel rimuginio ininterrotto, ripetitivo e controproducente che può occupare ore e ore delle nostre giornate.

La principale caratteristica del rimuginio è la sua ripetitività e ridondanza, che lo distingue nettamente dal pensiero finalizzato alla soluzione di un problema. Spesso riteniamo che per risolvere un problema lo dobbiamo comprendere alla radice, analizzarne tutte le sfaccettature, approfondirne le cause e prevederne tutte le conseguenze. E poi ricominciare da capo, perché nulla sia sfuggito a questa analisi. Ci si pongono sempre le stesse domande, a cui non riusciamo da trovare risposte soddisfacenti, il che ci porta a ripetere l’intero processo, potenzialmente anche all’infinito. Questo è il modo migliore per restare incagliati in una situazione di stallo, carico di ansia e agitazione da cui nel tempo sarà sempre più difficile venir fuori. Osservando se stessi bloccati e in preda a una sofferenza emotiva sempre più intensa, finiremo anche completamente scoraggiati circa la possibilità di modificare lo stato di cose, di qui anche l’umore basso che a volte ci può attanagliare.

Vi è alla base un errore di fondo: si ritiene che più si riflette su una questione e più essa ci diventerà chiara e noi saremo più capaci di affrontarla, il che è del tutto sbagliato. Alcune varianti di questo pensiero:

  • più cerco di capire gli errori del passato e più sarò in grado di prevenire errori futuri;
  • più comprendo le radici dei miei problemi analizzando il mio terribile passato e prima ne verrò fuori;
  • più cerco di prevedere tutte le possibilità, più sarò preparato ad affrontare le situazioni;
  • più mi concentro su me stesso e più sarò capace di controllare le mie emozioni;
  • più rievoco le figuracce che ho fatto e più sarò pronto a gestire le successive occasioni sociali;
  • più mi rimprovero per gli errori fatti, più troverò la motivazione per cambiare;
  • più mi preoccupo, maggiore sarà la probabilità di successo.

Il motivo per cui questo metodo serve solo ad incrementare la nostra ansia, è che il pensiero ruota per tempi lunghissimi intorno ai nostri errori, inefficienze, inadeguatezze, pericoli futuri, insomma, tutto ciò che di negativo c’è nella nostra vita passata, presente e futura. Finiamo così per rinforzare il giudizio negativo su noi stessi, sul mondo e sulla vita. Tutto ciò non ci aiuta né a stare meglio, né ad essere più efficaci.

La tendenza a rimuginare è più diffusa di quanto si pensi e bisogna dire che quando è limitata nel tempo, non è sempre completamente negativa: a volte ci è utile prepararci a una sfida importante cercando di prevedere quello che ci aspetta, oppure riflettere sui propri errori per apprendere da essi. A segnalarci che abbiamo superato il limite, interviene l’ansia e la netta sensazione di essere in un circolo vizioso logorante, che non ci aiuta nell’azione, anzi ci frena, ci inibisce e, incrementando le nostre paure, ci paralizza. Ci si sente sopraffatti dalla preoccupazione, che finisce per occupare tutto lo spazio mentale, impedendoci di concentrarci nello studio e nel lavoro, godere appieno di un’attività di svago o apprezzare un momento di riposo. Nei casi più gravi la preoccupazione può toglierci il sonno.

Chi porta questo problema in una psicoterapia, spesso segnala di aver provato tutti i sistemi possibili per “smettere di pensare”, senza riuscire. Eppure esiste la possibilità di indagare questa problematica alla luce dei più recenti modelli metacognitivi e applicare strategie capaci di approcciarsi ai propri pensieri in modo diverso, più leggero, libero e costruttivo.

Per un consulto su questo tipo di esperienza mentale, è possibile richiedere una valutazione diagnostica e un aiuto per un dialogo interno più costruttivo.

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Dottoressa, è il mondo che non va

Dottoressa, è il mondo che non va

Per la serie “spiegazioni controproducenti”: L’IDEA DI UN MODO OSTILE.

Quando abbiamo un problema che ci procura un qualche disagio psicologico, la prima operazione che fa il nostro cervello è immaginare le cause del problema stesso: dobbiamo darci delle spiegazioni, se vogliamo risolverlo e toglierci da quella situazione. Questa operazione è fondamentale e a seconda delle risposte che ci daremo, sceglieremo soluzioni diverse, alcune delle quali utili per risolvere il problema, altre invece inutili se non addirittura controproducenti. Se la spiegazione che ci diamo è disfunzionale o non aderente alla realtà, i nostri tentativi di soluzione del problema saranno con ogni probabilità fallimentari.

Una classica distorsione del pensiero consiste nel ritenere che la radice del problema risieda nel mondo là fuori, con la totale esclusione di una responsabilità da parte nostra. Questo tipo di prospettiva può prendere forme diverse:

  • l’idea di attrarre solo persone cattive, violente, manipolatrici o inadatte, colpevoli di farci soffrire,
  • l’idea che il problema sia di essere una persona troppo buona, destinata a essere schiacciata in un mondo di persone egoiste, menefreghiste e senza scrupoli,
  • l’idea che gli altri abbiano sempre cattive intenzioni nei nostri confronti, per cui non abbiamo scelta se non difenderci isolandoci o contrattaccando,
  • l’idea di essere sfortunati e quindi colpiti in maniera elettiva da una sorte avversa,
  • l’idea di essere nati con un destino più duro e difficile degli altri, i quali avrebbero invece tutti una vita più agevolata.

La sostanza non cambia: il problema non sono io.

Una delle conseguenze di questo tipo di logica, è che i propri comportamenti disfunzionali vengono visti come una naturale e inevitabile reazione a quanto ci accade. Insomma la conclusione è: “io non ci posso fare nulla.”

Tutto ciò sembra salvaguardare il nostro amor proprio, come se ci alleggerissimo in un qualche modo, ma solo in apparenza questo è buono per noi. Sposare questa prospettiva significa infatti scivolare nella depressione dovuta al senso di impotenza, lo scoraggiamento e una visione completamente negativa del mondo. Si diventa sempre più soli perché i rapporti personali tendono ad essere compromessi dalla sfiducia e dalla diffidenza. Il disagio è spesso collegato con lunghe e improduttive rimuginazioni di rabbia.

Finché non si riesce a mettere a fuoco il proprio ruolo in quanto accade, nei termini di almeno una parziale responsabilità, non si può nemmeno riuscire a immaginare di avere un potere di cambiamento e una reale capacità di modificare l’esito.

Facciamo un esempio: se non raggiungo un obiettivo, come superare con successo un colloquio di lavoro, ho due possibilità: pensare che la sfortuna si accanisce su di me e quindi non troverò mai un lavoro, con la conseguenza di scoraggiarmi e rinunciare a presentarmi ad altri colloqui. Oppure pensare che trovare un lavoro non è facilissimo, però magari anche il mio modo di pormi non è stato efficace. Allora, invece di scoraggiarmi, potrò lavorare per migliorare la mia capacità di presentarmi, mantenere il contatto oculare col mio interlocutore, spiegare con sicurezza i miei punti di forza, prepararmi meglio su determinate tematiche, fare domande pertinenti, ecc. Ecco che riconoscere la propria responsabilità apre le porte ad un cambiamento che aumenterà le probabilità di successo.

Un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale può facilitare questo passaggio e ridare senso di efficacia, fiducia e potere di cambiamento, interrompendo circoli viziosi improduttivi.

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Dottoressa, sarà il mio carattere?

Dottoressa, sarà il mio carattere?

Per la serie “spiegazioni controproducenti”: L’IDEA DI UN CARATTERE INNATO.

Quando si affronta un percorso di psicoterapia, come è giusto che sia, la persona che cerca aiuto per le proprie difficoltà ha già elaborato tra sé e sé delle spiegazioni circa la natura e le cause del proprio problema. Avrà anche già tentato delle strategie per risolverlo, senza riuscire o riuscendo solo in parte, il che giustifica la richiesta d’aiuto professionale. Gli esseri umani hanno questa qualità: osservano se stessi e il proprio comportamento e ne traggono delle conclusioni. La natura di queste ultime può essere funzionale o disfunzionale, a seconda che permetta di risolvere il problema o meno. Vi sono una serie di luoghi comuni e di pensieri ricorrenti che spesso sono di ostacolo a chi sta cercando di apportare un cambiamento in positivo alla propria vita. In questo articolo analizziamo il primo: l’idea di essere portatori di un “carattere” particolare.

La storia della psicologia ha contribuito a questa rappresentazione, approfondendo nel tempo concetti quali: “temperamento”, “costituzione”, “carattere”, “tipo psicologico” e infine “personalità”. Abbiamo la percezione di essere un complesso unitario, un tutt’uno con caratteristiche peculiari, che in qualche modo determina il nostro modo di agire e di reagire. Osserviamo il nostro comportamento e abbiamo la sensazione che ci siano delle costanti, delle modalità tipiche che ci definiscono.

Il concetto di “carattere” è uno dei più potenti ostacoli ad un percorso di psicoterapia che io abbia mai incontrato.

Esso infatti presuppone una base stabile e immodificabile, almeno in parte, che rende pessimisti circa la possibilità di un cambiamento, frena l’intraprendenza e boicotta l’impegno profuso verso gli obiettivi che ci si pone. Ogni insuccesso viene letto come la prova di una costituzionalità o peggio, di un destino immutabile. I successi, viceversa, saranno con più probabilità letti come il risultato del caso o della fortuna o della benevolenza altrui, qualcosa che si raggiunge nonostante le proprie tare.

Tutto è basato su un fraintendimento di fondo. È senz’altro vero che ognuno di noi possiede delle tipiche modalità di reagire al proprio ambiente, che tendiamo a ripetere. Nel percorso di vita sperimentiamo strategie che possono anche funzionare in determinati momenti (ad es. per ottenere amore, riconoscimento, conferme, attenzione, lodi, benefici materiali, intimità, ecc.) e ovviamente tenderemo a riproporle, attraverso un banale meccanismo di apprendimento. Tali strategie possono in seguito rivelarsi disfunzionali oppure insufficienti. L’errore sta nel ritenere che queste modalità ripetute tali e quali nel tempo siano definite da una sorta di impronta genetica o familiarità che le definisce e le perpetua. Se si è in questo pensiero, è improbabile valutare di intraprendere un percorso di crescita personale, oppure sì, ma senza crederci troppo. Si chiude il discorso dicendo a se stessi: “io sono così, punto” e arrendendosi a qualcosa che viene percepito come un muro di gomma contro il quale è inutile scagliarsi.

“Sono fatto così”, “ci sono nato”, “è più forte di me”, sono delle varianti dello stesso concetto, che porta a concludere: “Che ci posso fare? Nulla.”

La chiave sta nel rovesciare questa prospettiva, basandosi appunto sul concetto di apprendimento. Tutto ciò che è stato costruito attraverso l’esperienza, può essere in qualunque momento accantonato nel momento in cui si fanno esperienze diverse che permettono l’apprendimento di nuove abilità. Questo è possibile lungo tutto l’arco della vita. La probabilità di riuscita risiede proprio nella capacità di mettere in discussione l’esistenza di un carattere che non saremo mai in grado di demolire e mettere a fuoco invece obiettivi realistici verso cui impegnarsi con fiducia.

Il successo di una psicoterapia non dipende mai da caratteristiche intrinseche del paziente, ma dall’impegno che profonde con maggiore o minore determinazione verso un obiettivo.

La scelta di un approccio psicoterapeutico comportamentista sostiene questo tipo di logica, perché accantona le dotte elucubrazioni e le inverosimili interpretazioni, per concentrarsi sulla concretezza del cosa fare, come gestire, quale abilità si possono rinforzare, allargando la gamma delle opzioni a propria disposizione invece di chiudersi all’angolo.

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fempower

FEMPOWER: Una esperienza di gruppo per donne vittime di violenza nelle relazioni sentimentali

Le donne che hanno subito maltrattamenti da parte di un partner o ex partner riportano spesso conseguenze drammatiche, anche sul piano psicologico, causate da un prolungato stato di soggiogamento, da ripetute violenze e talvolta vere e proprie torture sistematiche. FEMPOWER è il resoconto di una esperienza di gruppo di donne, che ha avuto luogo presso il centro antiviolenza “Donne e Giustizia” di Ancona. Incontro dopo incontro, le tematiche sviscerate con la conduzione di una psicologa del centro, sono state:

(1) conoscere le dinamiche della violenza e sapersene difendere;

(2) gestire le ansie e le paure;

(3) difendere i propri diritti e affermare se stesse.

Il libro è volutamente poco teorico e molto pragmaticamente ancorato all’esperienza delle donne e ai loro discorsi, nel loro percorso di graduale conquista della propria sicurezza, autonomia e libertà. Gli spunti che hanno guidato le discussioni di gruppo sono fedelmente riportati, per permettere anche in altri contesti una riproposizione altrettanto proficua e ricca di consapevolezze emergenti.

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L’autostima è un percorso

L’autostima è un percorso

Spesso le azioni che facciamo pensando di aumentare la nostra autostima sono proprio quelle che la distruggono.

L’errore di base è quello di pensare che essere determinati, capaci, spontanei o socialmente competenti sia un “carattere” con cui siamo nati. Già pensare questo ci taglia le gambe, perché non siamo nell’ottica di poter agire nella direzione del cambiamento e dell’incremento dell’autostima. Di fronte alle difficoltà ci sentiamo così costituzionalmente inadeguati, inferiori, inadatti.

La prima strategia disfuzionale che potremmo mettere in atto per cercare di migliorare la situazione è arrendersi a quella che sembra essere un’evidenza, ed evitare tutte le situazioni nelle quali ci potremmo sentire a disagio. In questo modo non ci esponiamo, non rischiamo e nemmeno cresciamo. Osservando il nostro stesso comportamento giungiamo a delle conclusioni deleterie: “sono un codardo”, “sono pauroso”, “sono incapace”, “sono fragile”, “sono debole”. Autostima? Sotto i piedi. E tanto più ci impegniamo a restare nella nostra zona di comfort e tanto più forte diventerà questa certezza.

Talvolta si decide di reagire a questo stato di cose, ma in modi che ulteriormente indeboliscono la nostra autostima. Quello più tipico? Porsi un obiettivo molto elevato, sfidando le proprie paure più grandi e dire a se stessi: “se riuscissi a raggiungere quell’obiettivo, allora potrei dimostrare che valgo.” E’ una modalità di pensiero del tipo tutto/niente: “o riesco a raggiungere immediatamente la vetta (e allora vuol dire che sono una persona di valore), oppure significa che non valgo nulla.” Siccome l’obiettivo che ci si è posti è eccessivamente alto e non raggiungibile subito, ecco che ci esponiamo ad una probabilità di fallimento molto alta. E alla fine ne dovremo concludere che sì, effettivamente “non sono all’altezza, sono un totale incapace, un fallimento.” Ecco che la strategia che nelle nostre intenzioni ci doveva aumentare l’autostima, di fatto ci restituisce, rinforzato, un pensiero negativo e squalificato di noi stessi.

La buona notizia è che, se da un lato alcune strategie disfuzionali possono peggiorare la nostra autostima, ve ne sono altre capaci di migliorarla sensibilmente. Ma come si può uscire dalla propria zona di comfort senza che quello che facciamo ci torni indietro come un boomerang?

Oltre il confine della zona di comfort esiste la cosiddetta “zona di apprendimento“, un’area all’interno della quale possiamo sperimentare senza correre grossi rischi di fallimento, ottenere successi, crescere, diventare via via più competenti e sicuri di noi stessi. L’autostima è un percorso, nel quale possiamo compiere passo passo progressi nella direzione di allargare la nostra comfort zone.

Un percorso di psicoterapia comportamentale si basa essenzialmente su una serie di tecniche la cui efficacia è sperimentata, per esporsi alla cosiddetta “zona di apprendimento” sentendosi efficaci e rinforzando così l’autostima. L’approccio comportamentale fornisce strumenti concreti che rendono le persone sempre più abili nel gestire situazioni fino a quel momento temute ed evitate, di difficoltà via via crescente, fino ad arrivare all’obiettivo inizialmente percepito come irraggiungibile. Se non è affidata all’improvvisazione, ma a un piano terapeutico strutturato, la probabilità di successo è decisamente maggiore.

Per avere una consulenza su un percorso di incremento dell’autostima, puoi contattare la dott.ssa Grilli esperta in tecniche di tipo comportamentale.

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Catastrofi e violenza di genere

Catastrofi e violenza di genere

17-19 maggio 2019: formazione ARES (Associazione Regionale di Emergenza Socio-sanitaria) “Un’ora dopo…one week later – Interventi integrati in medicina delle catastrofi.”

In questo contesto ho potuto gestire un laboratorio rivolto ai medici, infermieri e psicologi dell’emergenza su “Catastrofi e violenza di genere”.

Diversi studi, infatti, suggeriscono che nell’immediatezza di una catastrofe (terremoti, inondazioni, uragani, ecc.) e nelle fasi successive, il tasso di violenza sulle donne e sui bambini tende ad aumentare in termini di frequenza e gravità. La violenza nelle catastrofi è stata poco indagata, tuttavia alcuni studi sistematici sull’argomento mostrano come dopo un disastro tendono ad incrementare la violenza domestica, la violenza sessuale e l’abuso sui minori.

Quando una donna è già vittima di violenza da parte di un partner, è probabile che sperimenti una escalation in termini di frequenza e gravità, subito dopo una catastrofe. La motivazione centrale di ogni forma di violenza sulle donne è il bisogno di potere e controllo del maltrattante. La percezione di controllo naturalmente vacilla in concomitanza con il disastro; di qui l’esigenza di alzare il tiro e ripristinare il controllo attraverso l’unica modalità che conosce: sottomettere, umiliare, schiacciare la volontà dell’altra.

Nelle fasi successive a un disastro, le donne e i bambini esposti a queste forme di violenza vanno più facilmente incontro a un disturbo post-traumatico da stress o altri disturbi d’ansia o depressivi, in quanto  vengono combinati gli effetti di più eventi traumatici.

La situazione delle vittime è particolarmente critica per le donne, in quanto devono fronteggiare l’esacerbazione di comportamenti violenti ai loro danni, nelle già difficili condizioni di sopravvissute ad un disastro:

  • viene meno la loro rete informale di sostegno sociale, aumenta l’isolamento e l’esposizione al controllo del proprio carnefice;
  • la rete formale di supporto e protezione per le donne vittime di violenza collassa. Nella fase dell’emergenza disastro, può essere più difficile ottenere aiuto da forze dell’ordine e servizi locali, a loro volta surclassati e impegnati a fronteggiare l’emergenza;
  • la perdita di beni e risorse stressa il conflitto familiare e riduce le risorse a disposizione della donna per poter interrompere la relazione e mettersi in sicurezza con le proprie forze;
  • Inoltre, la precarietà delle condizioni di vita rende le donne più vulnerabili ad aggressioni di estranei e a stupri – la motivazione di questo fenomeno risiede sempre nel bisogno di potere e controllo.

Il laboratorio è stata una vera e propria esercitazione volta a incrementare la capacità di riconoscere i campanelli di allarme di una relazione maltrattante e fornire spunti per gestire il caso in un contesto emergenziale come quello di un ospedale da campo.

Grazie ad ARES per aver inserito all’interno del proprio programma formativo anche questo laboratorio, dimostrando attenzione alle esigenze delle donne anche in situazioni in cui normalmente tutti gli sforzi sono concentrati a fronteggiare un’emergenza.


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