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Piangere senza alcuna (apparente) ragione

Piangere senza alcuna (apparente) ragione

Il pianto è una reazione non solo comprensibile la maggior parte delle volte, ma anche salutare. Ci calma, riduce il dolore, comunica agli altri il nostro bisogno di aiuto. Ma può capitare di scoppiare a piangere senza alcuna apparente ragione. Perché?

Si piange quando siamo attraversati da una emozione forte o quando proviamo dolore fisico. Non è un segnale di debolezza come si ritiene a volte. A volte però può accadere senza che possiamo pienamente comprenderne le cause in quel momento. Magari non siamo affatto tristi o sconvolti per un motivo preciso. In questi casi è più facile che lo interpretiamo come qualcosa che non va in noi o una fragilità personale.

Depressione

Se si sta attraversando una fase di depressione il pianto senza apparente ragione può essere un sintomo. I sentimenti che tipicamente accompagnano l’umore depresso sono: solitudine, senso di colpa, sensazione di essere indegno come persona, disperazione e perdita di speranza, senso di vuoto interiore.

Ansia

Anche se non siamo spaventati o sconvolti da un fatto preciso, vi possono essere sensazioni di preoccupazione continua accompagnate da sensazioni fisiche spiacevoli di ansia. Queste ultime possono sfociare in un pianto che sembra arrivare in modo imprevedibile.

Difficoltà nella regolazione emotiva

Per motivi diversi, tra cui elevati livelli di stress, possiamo trovarci sopraffatti, senza essere consapevoli della tensione che il nostro corpo sta sperimentando in modo continuativo da tempo. Il pianto può essere uno dei modi attraverso cui queste tensioni vengono, almeno parzialmente, sciolte. È quindi di un meccanismo di regolazione emotiva.

Si piange sempre per un motivo, quindi, anche quando di quel motivo non siamo completamente consapevoli.

Non necessariamente significa che abbiamo un problema serio. Di sicuro il fenomeno ha a che fare con meccanismi di autoregolazione che ci aiutano.

Si può pensare di chiedere un aiuto professionale nei casi in cui sia frequente e duraturo oppure se impatta in modo eccessivo sulla vita quotidiana e sulle relazioni.

La terapia cognitivo-comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale può aiutare a:

  • identificare pensieri ed emozioni sottostanti,
  • discriminare livelli di tensione o stress che possono esserci a monte,
  • applicare una serie di strumenti e prassi di regolazione emotiva.

Nei casi di depressione o disturbi d’ansia la terapia va a rafforzare le abilità che sono efficaci per contrastare queste problematiche.

In ogni caso, il percorso può supportare la persona con tecniche specifiche capaci di permettere fronteggiare le emozioni più intense e spiacevoli.

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Non ce la faccio… rimando!

Non ce la faccio… rimando!

Una delle difficoltà che più ci impedisce di raggiungere i nostri obiettivi è la procrastinazione, la sistematica e fatale decisione di rimandare un’attività.

La maggior parte delle volte – ammettiamolo – noi non siamo del tutto persi e senza punti di riferimento. Sapremmo esattamente cosa fare e come. Tuttavia diciamo a noi stessi:

  • “Non ora”
  • “Adesso non ce la faccio”
  • “Ho ancora tanto tempo per…”
  • “Non sono pronto/a”

Naturalmente non è patologica ogni scelta di rimandare qualcosa. Tutti lo facciamo. Ma se la procrastinazione è cronica, mina importanti obiettivi di crescita personale o progetti. E diventa un problema.

Dopo la scelta di rimandare, il nostro cervello continua a lavorare e a valutare la nostra stessa scelta. Iniziamo a dire a noi stessi:

  • “Pigro!”
  • “Sei inutile”
  • “Sei un menefreghista”
  • “Non combinerai mai nulla”
  • “Sei un incapace”
  • “Sei un fallito”

Quando dobbiamo insultare noi stessi di solito non andiamo troppo per il sottile. L’idea (del tutto infondata) è che tanto più ci andremo pesante, tanto più ci riscuoteremo dall’immobilismo. Purtroppo non è così che troveremo la motivazione. Anzi, è questo il modo migliore per avere un umore ancora più basso e un drammatico calo di energie e voglia di fare.

Il circolo vizioso

Siamo di fatto in un  circolo vizioso. Se un’attività è sgradevole, noiosa o difficile, tanto più la rimandiamo, tanto più diventerà difficile pensare di applicarsi. Si tratta probabilmente del meccanismo che più di ogni altro è responsabile dei nostri fallimenti. E ci predispone alla depressione che ci attanaglia in particolari momenti della nostra vita.

Il procrastinatore seriale di solito si trova a dover fronteggiare alti livelli di stress che possono far sentire paralizzati, bloccati. Tanto più applica la sua strategia di evitamento, tanto più si sentirà alleggerito nell’immediato. Il carico di stress aumenterà però a medio e lungo termine. Il carico di lavoro si accumula, la scadenza si avvicina, la paura della disfatta cresce, i pensieri di incapacità personale si fanno più insistenti.

Dietro la tendenza a procrastinare ci può essere la paura di fallire, ed è paradossale come proprio così aumentiamo la probabilità di fallire. E’ come una ferita autoinflitta, un negare a se stessi la gratificazione di un obiettivo raggiunto, un togliere senso alla nostra esistenza.

Come uscirne?

Motore del benessere è rappresentato invece dall’emozione positiva che scaturisce dal riuscire in qualcosa che ci siamo riproposti, il poter dire a se stessi “Ce l’ho fatta”. Questo ci predispone al meglio per il successivo obiettivo da raggiungere. Ogni successo è come un premio per il nostro cervello, e quindi mette in circolo energia positiva.

Per uscire dal circolo vizioso a volte non è sufficiente semplicemente fare quello che si deve fare. Se fosse facile non esisterebbe il problema. Vi sono però metodi collaudati di autoregolazione emotiva che possono facilitare quel movimento in avanti iniziale che innesca il circuito virtuoso di azione e gratificazione.

Come regolare quella tensione emotiva responsabile dell’evitamento? Vi sono delle tecniche, che in un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale possono essere padroneggiate, per ridiventare padroni del proprio destino.

Contatta la dott.ssa Elena Grilli per iniziare ad agire in questa direzione… senza rimandare!

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Si rimugina troppo?

Si rimugina troppo?

Una grande parte dei disturbi depressivi o ansiosi va di pari passo con quel rimuginio ininterrotto, ripetitivo e controproducente che può occupare ore e ore delle nostre giornate.

La principale caratteristica del rimuginio è la sua ripetitività e ridondanza, che lo distingue nettamente dal pensiero finalizzato alla soluzione di un problema. Spesso riteniamo che per risolvere un problema lo dobbiamo comprendere alla radice, analizzarne tutte le sfaccettature, approfondirne le cause e prevederne tutte le conseguenze. E poi ricominciare da capo, perché nulla sia sfuggito a questa analisi. Ci si pongono sempre le stesse domande, a cui non riusciamo da trovare risposte soddisfacenti, il che ci porta a ripetere l’intero processo, potenzialmente anche all’infinito. Questo è il modo migliore per restare incagliati in una situazione di stallo, carico di ansia e agitazione da cui nel tempo sarà sempre più difficile venir fuori. Osservando se stessi bloccati e in preda a una sofferenza emotiva sempre più intensa, finiremo anche completamente scoraggiati circa la possibilità di modificare lo stato di cose, di qui anche l’umore basso che a volte ci può attanagliare.

Vi è alla base un errore di fondo: si ritiene che più si riflette su una questione e più essa ci diventerà chiara e noi saremo più capaci di affrontarla, il che è del tutto sbagliato. Alcune varianti di questo pensiero:

  • più cerco di capire gli errori del passato e più sarò in grado di prevenire errori futuri;
  • più comprendo le radici dei miei problemi analizzando il mio terribile passato e prima ne verrò fuori;
  • più cerco di prevedere tutte le possibilità, più sarò preparato ad affrontare le situazioni;
  • più mi concentro su me stesso e più sarò capace di controllare le mie emozioni;
  • più rievoco le figuracce che ho fatto e più sarò pronto a gestire le successive occasioni sociali;
  • più mi rimprovero per gli errori fatti, più troverò la motivazione per cambiare;
  • più mi preoccupo, maggiore sarà la probabilità di successo.

Il motivo per cui questo metodo serve solo ad incrementare la nostra ansia, è che il pensiero ruota per tempi lunghissimi intorno ai nostri errori, inefficienze, inadeguatezze, pericoli futuri, insomma, tutto ciò che di negativo c’è nella nostra vita passata, presente e futura. Finiamo così per rinforzare il giudizio negativo su noi stessi, sul mondo e sulla vita. Tutto ciò non ci aiuta né a stare meglio, né ad essere più efficaci.

La tendenza a rimuginare è più diffusa di quanto si pensi e bisogna dire che quando è limitata nel tempo, non è sempre completamente negativa: a volte ci è utile prepararci a una sfida importante cercando di prevedere quello che ci aspetta, oppure riflettere sui propri errori per apprendere da essi. A segnalarci che abbiamo superato il limite, interviene l’ansia e la netta sensazione di essere in un circolo vizioso logorante, che non ci aiuta nell’azione, anzi ci frena, ci inibisce e, incrementando le nostre paure, ci paralizza. Ci si sente sopraffatti dalla preoccupazione, che finisce per occupare tutto lo spazio mentale, impedendoci di concentrarci nello studio e nel lavoro, godere appieno di un’attività di svago o apprezzare un momento di riposo. Nei casi più gravi la preoccupazione può toglierci il sonno.

Chi porta questo problema in una psicoterapia, spesso segnala di aver provato tutti i sistemi possibili per “smettere di pensare”, senza riuscire. Eppure esiste la possibilità di indagare questa problematica alla luce dei più recenti modelli metacognitivi e applicare strategie capaci di approcciarsi ai propri pensieri in modo diverso, più leggero, libero e costruttivo.

Per un consulto su questo tipo di esperienza mentale, è possibile richiedere una valutazione diagnostica e un aiuto per un dialogo interno più costruttivo.

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L’autostima è un percorso

L’autostima è un percorso

Spesso le azioni che facciamo pensando di aumentare la nostra autostima sono proprio quelle che la distruggono.

L’errore di base è quello di pensare che essere determinati, capaci, spontanei o socialmente competenti sia un “carattere” con cui siamo nati. Già pensare questo ci taglia le gambe, perché non siamo nell’ottica di poter agire nella direzione del cambiamento e dell’incremento dell’autostima. Di fronte alle difficoltà ci sentiamo così costituzionalmente inadeguati, inferiori, inadatti.

La prima strategia disfuzionale che potremmo mettere in atto per cercare di migliorare la situazione è arrendersi a quella che sembra essere un’evidenza, ed evitare tutte le situazioni nelle quali ci potremmo sentire a disagio. In questo modo non ci esponiamo, non rischiamo e nemmeno cresciamo. Osservando il nostro stesso comportamento giungiamo a delle conclusioni deleterie: “sono un codardo”, “sono pauroso”, “sono incapace”, “sono fragile”, “sono debole”. Autostima? Sotto i piedi. E tanto più ci impegniamo a restare nella nostra zona di comfort e tanto più forte diventerà questa certezza.

Talvolta si decide di reagire a questo stato di cose, ma in modi che ulteriormente indeboliscono la nostra autostima. Quello più tipico? Porsi un obiettivo molto elevato, sfidando le proprie paure più grandi e dire a se stessi: “se riuscissi a raggiungere quell’obiettivo, allora potrei dimostrare che valgo.” E’ una modalità di pensiero del tipo tutto/niente: “o riesco a raggiungere immediatamente la vetta (e allora vuol dire che sono una persona di valore), oppure significa che non valgo nulla.” Siccome l’obiettivo che ci si è posti è eccessivamente alto e non raggiungibile subito, ecco che ci esponiamo ad una probabilità di fallimento molto alta. E alla fine ne dovremo concludere che sì, effettivamente “non sono all’altezza, sono un totale incapace, un fallimento.” Ecco che la strategia che nelle nostre intenzioni ci doveva aumentare l’autostima, di fatto ci restituisce, rinforzato, un pensiero negativo e squalificato di noi stessi.

La buona notizia è che, se da un lato alcune strategie disfuzionali possono peggiorare la nostra autostima, ve ne sono altre capaci di migliorarla sensibilmente. Ma come si può uscire dalla propria zona di comfort senza che quello che facciamo ci torni indietro come un boomerang?

Oltre il confine della zona di comfort esiste la cosiddetta “zona di apprendimento“, un’area all’interno della quale possiamo sperimentare senza correre grossi rischi di fallimento, ottenere successi, crescere, diventare via via più competenti e sicuri di noi stessi. L’autostima è un percorso, nel quale possiamo compiere passo passo progressi nella direzione di allargare la nostra comfort zone.

Un percorso di psicoterapia comportamentale si basa essenzialmente su una serie di tecniche la cui efficacia è sperimentata, per esporsi alla cosiddetta “zona di apprendimento” sentendosi efficaci e rinforzando così l’autostima. L’approccio comportamentale fornisce strumenti concreti che rendono le persone sempre più abili nel gestire situazioni fino a quel momento temute ed evitate, di difficoltà via via crescente, fino ad arrivare all’obiettivo inizialmente percepito come irraggiungibile. Se non è affidata all’improvvisazione, ma a un piano terapeutico strutturato, la probabilità di successo è decisamente maggiore.

Per avere una consulenza su un percorso di incremento dell’autostima, puoi contattare la dott.ssa Grilli esperta in tecniche di tipo comportamentale.

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Depressione al femminile

Depressione al femminile

La ricerca ha più volte evidenziato che le donne sono più vulnerabili alla depressione rispetto agli uomini. Analizziamo i motivi per cui questo è vero.

La predisposizione alla depressione è il prodotto della storia di vita: le persone che hanno appreso una visione pessimistica e il senso di impotenza di fronte agli eventi, hanno una maggiore probabilità di incorrere in una sintomatologia depressiva, di solito in seguito a eventi cosiddetti “precipitanti”, cioè situazioni problematiche, difficili o critiche che richiedono capacità di problem solving e di azione tenace, perseverante, efficace. Di fronte a questo tipo di stress, gli individui più predisposti alla depressione rispondono in modo inadeguato e inefficace, fallendo nel raggiungimento dei propri obiettivi. Le convinzioni pessimistiche della persona e il suo senso di impotenza si rafforzano in seguito al fallimento, e la probabilità di ritrovarsi in una nuova situazione di stress aumenta. A questo punto diventa un circolo vizioso.

Si è tanto più protetti dal rischio di depressione quanto più alto è il livello di AUTOEFFICACIA, cioè la sensazione di essere efficaci nel gestire gli eventi, la fiducia di possedere le capacità di affrontare e risolvere un problema, la convinzione di poter raggiungere determinati risultati mettendo in atto precisi comportamenti. L’autoefficacia si apprende nella vita, attraverso l’osservazione del comportamento altrui, attraverso l’incoraggiamento ricevuto da bambini nell’affrontare sfide via via più difficili, attraverso l’esperienza di successi nel superare tali sfide.

Questo è vero sia per gli uomini che per le donne. Allora perché queste ultime sono maggiormente esposte al rischio di depressione? La biologia non sembra riuscire a dare spiegazioni in merito, mentre la psicologia sociale sì, andando ad investigare la socializzazione dei bambini e delle bambine.

Nella maggiore predisposizione femminile alla depressione ha un ruolo fondamentale il PATERNALISMO.

In un setting sociale altamente paternalistico, un individuo può contare su altri per risolvere un problema o affrontare una sfida di vita, evitando di assumersi in prima persona le responsabilità, con la conseguenza di avere ridotte opportunità di assumersi dei rischi e di perfezionare le abilità e le competenze necessarie per fronteggiare in prima persona le difficoltà. Questo avviene sia per i bambini che per le bambine, dai quali naturalmente non ci si aspetta che siano da soli in grado di gestire delle situazioni problematiche. Al crescere dell’età, tuttavia, le bambine e le ragazze permangono in un setting paternalistico per un tempo maggiore rispetto ai bambini e ai ragazzi, probabilmente sulla base di stereotipi che etichettano le femmine come più delicate, fragili e bisognose di aiuto e protezione. Mentre i maschi vengono più facilmente incoraggiati a confrontarsi con la realtà, assumersi rischi ed essere attivi, dalle femmine ci si aspetta maggiore cautela, passività e una minore capacità di cavarsela da sole. Il risultato è che queste ultime, di fronte ad un problema, vengono meno spesso incoraggiate a confrontarsi da sole, ottengono più facilmente informazioni e consigli sul da farsi o addirittura trovano qualcuno che si sostituisce a loro nell’azione. Anche da adulte le donne, secondo un codice non scritto di norme sociali, si suppone debbano essere protette e guidate, mentre si suppone che gli uomini siano più capaci ed esperti.

Come si può intuire, l’atteggiamento paternalista incide pesantemente sul senso di autoefficacia e sull’esperienza di vita delle donne, che effettivamente avranno una maggiore probabilità di dubitare delle proprie capacità, di percepirsi deboli, vulnerabili e fragili di fronte alla vita e quindi più predisposte alla depressione.

Naturalmente questo non è un destino inevitabile: la cultura sessista sta cambiando nel tempo, le donne hanno via via sempre più opportunità di mostrare il proprio valore e di costruirsi una percezione di sé diversa rispetto a decenni o secoli fa. Una percezione di forza e competenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, avere un confronto professionale per comprendere come questi aspetti possano aver influito sulla propria vita può essere importante.

Approfondimenti su tematiche di genere

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Depressione

Depressione

La depressione è un problema molto comune: la maggior parte delle persone si sente giù di umore, in particolare quando alle prese con fasi critiche della propria vita o con eventi stressanti.

Si stima che in Italia la depressione colpisca nell’arco della vita, circa l’11% della popolazione.

Un divorzio, una perdita di lavoro, problemi economici o un lutto sono esempi di eventi precipitanti la depressione. Ora però sappiamo che il nostro modo di pensare gioca un ruolo cruciale sul nostro umore.

Di seguito i principali segni e sintomi che si possono verificare in una condizione di depressione. Quando si è depressi, vi sono cambiamenti nel modo di pensare, sentirsi, comportarsi e nelle reazioni fisiologiche:

  • Tristezza, sensi di colpa, senso di disperazione;
  • Perdita di interesse o di entusiasmo;
  • Pianto o viceversa, totale incapacità a piangere;
  • Sentirsi soli anche quando si è in compagnia;
  • Irritabilità, rabbia, a partire da piccoli pretesti;
  • Stanchezza, spossatezza;
  • Agitazione, disturbi del sonno;
  • Cambiamenti rilevanti nel peso, nell’appetito e nel comportamento alimentare;
  • Perdita di autostima;
  • Previsioni future pessimistiche e negative;
  • Pensiero che tutto sia senza speranza;
  • Odio verso se stessi;
  • Difficoltà di memoria e di concentrazione;
  • Difficoltà a prendere decisioni;
  • Scoraggiamento, difficoltà ad iniziare o portare avanti attività.

Se si sperimentano alcuni di questi sintomi, la condizione può essere temporanea o sfociare in un disturbo cronico.

La terapia cognitivo-comportamentale è efficace nel trattamento della depressione e può fornire una valida alternativa al trattamento farmacologico, anche nelle forme più gravi del disturbo.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico finalizzato a un migliore tono dell’umore.

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