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L’abuso nel post-separazione

L’abuso nel post-separazione

La violenza nelle relazioni di intimità è violenza di genere, che si esprime nelle varie forme di: violenza fisica, sessuale, verbale, emotiva, economica. Quando la relazione finisce, gli abusi non si interrompono, ma si adattano al nuovo contesto del post-separazione. La violenza solitamente tende ad aumentare in questa fase, divenendo in alcuni casi anche più terribile rispetto a quando si divideva lo stesso tetto. Il maltrattante tende a esercitare potere e controllo prendendo di mira i bambini e la genitorialità della ex compagna, la sua autonomia economica e la sua credibilità.

Le battaglie, che si incentrano sulla custodia dei bambini, sono alimentate dal desiderio del maltrattante di vincere, avere controllo, ferire o punire la donna che ha osato sfidarlo rivendicando la sua libertà.

Di seguito la “Ruota del potere e del controllo nel post-separazione”, che ho tradotto per Associazione Artemisia di Fabriano partendo dal lavoro di  OMB – One Mom’s Battle.

Gli abusi che coinvolgono i bambini e le bambine

La cosiddetta “contro-genitorialità” si manifesta minando di proposito il lavoro fatto dal genitore sano: interrompere le routine sane di sonno e alimentazione, contraddire le regole educative poste dall’altro genitore, ignorare le responsabilità scolastiche, impedire lo svolgimento dei compiti a casa, creando confusione nei bambini e un sovraccarico al genitore sano per ristabilire le linee di condotta adeguate. Il maltrattante potrebbe inoltre non condividere importanti informazioni sui bambini (ad esempio inerenti la salute o la scuola), usare i bambini per spiare o acquisire informazioni sull’ex partner, oppure forzare per avere i bambini con sé anche quando non sarebbe utile nel loro interesse.

La genitorialità del genitore maltrattante è spesso trascurante o addirittura abusiva. I bambini potrebbero essere esposti a contenuti inappropriati, in TV o nei videogiochi, oppure a persone tossiche. Per guadagnarsi benevolenza, il genitore abusante potrebbe usare metodi intimidatori o manipolativi, facendo leva sui loro bisogni, stati d’animo o paure. Spesso opera in modo manipolatorio per metterli contro l’altro genitore.

I bambini vengono pretesi in virtù del proprio diritto come genitore, ma per un uomo violento prendersi cura di loro è pesante, perché richiede autosacrificio, cosa di cui non è capace, quindi affibbia spesso i bambini a qualcun altro: i suoi genitori, una babysitter, chiunque purché non sia la madre.

Gli abusi sulle donne

Accanto alle strumentalizzazioni che colpiscono i figli, continua parallelamente l’operazione di distruzione dei legami e delle reti sociali. Attraverso la diffamazione o mettendo in giro menzogne e pettegolezzi che ne distruggono l’immagine e la reputazione, il maltrattante cerca sempre di isolare la donna dai familiari, dagli amici e dalla comunità. La dipinge come pazza, instabile, pretenziosa, disonesta.

Lo stesso intento malevolo può portare anche all’uso abusivo del sistema giudiziario, che comporta spesso una vera e propria devastazione sul piano finanziario a causa delle spese legali che la donna deve sostenere in un confronto spesso impari dal punto di vista delle possibilità economiche.

Il controllo economico, una sfaccettatura della violenza domestica che crea dipendenza, continua nel post-separazione attraverso l’erogazione irregolare o assente del dovuto mantenimento o l’impedimento ad avere e mantenere un lavoro. Ad esempio il genitore abusante potrebbe non restituire vestiti dei figli obbligando l’altra ad acquistarne continuamente di nuovi, distruggere i giocattoli fingendo che sia solo un piccolo incidente, rifiutare di contribuire a determinate spese necessarie per i figli, oppure pretendere un programma di visita che non tiene conto delle esigenze lavorative di lei.

Inoltre potrebbero continuare le aggressioni e le intimidazioni, sotto forma di atti persecutori: inviare un numero impressionante di messaggi attraverso i vari canali, di varia natura, dal manipolatorio al minatorio, creando preoccupazioni persistenti, irrequietezza e continuo stato d’allerta.

Il femminicidio è sovente l’esito di un fallimento di tutte queste strategie di potere e controllo sull’ex partner, tanto che a volte le donne temono di contrastarle su tutta la linea, in modo da “tenerlo buono”, dandogli piccole soddisfazioni che non minano completamente il suo senso di controllo.

Le conseguenze per le vittime

L’abuso nel post-separazione ha conseguenze a lungo termine sia per le donne che per i loro figli. Crea un persistente senso di minaccia, talvolta sottile e difficile da decodificare, soprattutto per i più piccoli.

I bambini e bambine assistono alle umiliazioni continue sulla propria madre, sono strumentalizzati, manipolati, confusi da messaggi contraddittori, spaventati per se stessi e per il genitore tutelante.

Le donne sentono, dopo tanti sforzi volti a liberarsi da una relazione tossica, di non essere affatto libere, e di essere esposte a un carico di stressors perfino superiore a quando stava insieme al partner maltrattante. Non ci si stupisce quindi che sono maggiormente vulnerabili al rischio depressivo oppure a ripensamenti che le riportano all’interno della relazione abusante.


Immagine in evidenza: da Freepik

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Il cerchio di Banpo 2023 a Fabriano

Il cerchio di Banpo 2023 a Fabriano

L’edizione 2023 de “Il cerchio di Banpo” si è svolta ancora una volta a Fabriano, nella sede del centro antiviolenza “Artemisia”. Ne hanno beneficiato 20 donne che hanno costituito un gruppo fantasticamente attivo e solidale.

Io ho portato indicazioni generali sulla comunicazione assertiva e tracce su:

  • come attestare stima a qualcuno;
  • dire no a una richiesta che giunge sgradita;
  • fare richieste;
  • fare una critica costruttiva;

Molti discorsi si sono concentrati sul riconoscere e rimuovere dentro di sé gli ostacoli all’affermazione personale (sensi di colpa, paure, sensazione di essere in difetto, difficoltà a riconoscere un proprio diritto).

Le donne del gruppo hanno portato invece le proprie emozioni, esempi di situazioni concrete per esercitarsi, e tanta tanta voglia di cambiamento.

Al di là del potere delle esercitazioni, per sperimentarsi capaci di relazionarsi diversamente, la forza del gruppo risiede proprio nella capacità delle partecipanti di darsi comprensione e supporto, in un clima del tutto privo di giudizio. Un modo validissimo per sentire autenticamente di andare bene, di essere meritevole di accettazione incondizionata, di avere bisogni e diritti inalienabili.

Comunicare rispettando l’altro ma soprattutto se stessi è la via privilegiata per coltivare una sana autostima. Per le donne, abituate a sentirsi trattare come persone “da meno” rispetto agli uomini, un luogo come questo è prezioso per scoprire il proprio valore personale.

L’edizione 2023 del laboratorio è stata soddisfacente, sia in termini di partecipazione che di gradimento delle partecipanti. Non mancherà un degno prosieguo nel 2024!



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Il senso di sé dopo la violenza di genere

Il senso di sé dopo la violenza di genere

Subire reiteratamente violenza di genere ha un indubbio impatto sul senso di sé.

La continua critica, le punizioni irragionevoli per comportamenti innocui, le manipolazioni della realtà che colpevolizzano in modo sistematico, il controllo stringente esercitato su ogni aspetto della propria vita hanno conseguenze durature su come la persona pensa, vede e parla di se stessa.

Centrale è il sentimento della vergogna, non solo rispetto a quanto accade all’interno della relazione maltrattante, ma anche e soprattutto rispetto a quello che si sente di essere.

Le parole più comuni che ho sentito pronunciare alle donne vittime di maltrattamenti sistematici quando si riferiscono a se stesse sono:

  • cattiva
  • sbagliata
  • indegna
  • non amabile

e una serie di sinonimi, tutti col significato di “non vado bene”. Mentre ci si sente in colpa per qualcosa di sbagliato che si sente di aver fatto, la vergogna è un sentimento che riguarda il “come sento di essere come persona”. All’estremo, la vergogna può diventare disprezzo di sé.

Oltre a essere maggiormente esposte a esperienze di ansia e depressione, anche una volta concluso il rapporto abusante, chi fa questo tipo di esperienza tende a ritirarsi, a evitare esperienze, a nascondersi, a diventare quasi invisibili. C’è una mancanza di motivazione ad attivarsi positivamente nel fare, dal momento che il pensiero sottostante diventa: “non mi merito di essere felice o di stare bene”.

Senza dubbio questo vissuto è tra le conseguenze traumatiche più gravi e durature connesse con la violenza di genere.

La ricerca ci dice che l’esperienza della vergogna è connessa col funzionamento del nostro cervello rettiliano, il che la rende viscerale, profonda, ma soprattutto inaccessibile sul piano cognitivo. Detto in parole povere: non basta dire a se stesse che “sono una brava persona”, “sono una persona di valore”, ecc. È necessario fare esperienze profonde di auto-compassione, che permettono di SENTIRE nel corpo emozioni di accoglienza, calore, rispetto.

C’è un repertorio di tecniche e strumenti, all’interno della terapia cognitivo-comportamentale, che mirano proprio a questo scopo e che rendono piano piano possibile un rapporto con se stesse più autentico, compassionevole e meno giudicante.

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Il cerchio di Banpo a Fabriano

Il cerchio di Banpo a Fabriano

Dal 17 ottobre al 21 novembre 2022 si è tenuto nella sede del centro antiviolenza “Artemisia” di Fabriano il laboratorio sull’autostima femminile “Il cerchio di Banpo“, ideato e gestito dalla psicoterapeuta Elena Grilli. Fedele all’idea con cui è nata l’idea di questo laboratorio, l’esperienza ha rappresentato un vero e proprio viaggio nel mondo femminile.

Descrizione dell’esperienza

Il laboratorio è consistito in cinque incontri per esplorare l’autostima e i fattori che l’alimentano (o viceversa l’ostacolano). Ci sono state esercitazioni pratiche per entrare in contatto con se stesse e rafforzare specifici aspetti dell’autostima, difendere i propri confini e diritti, esprimersi liberamente rimanendo fedeli a se stesse, dare e darsi valore.

La partecipazione è stata molto attiva, da parte di donne di Fabriano e dintorni di tutte le età. Si sono vivacemente messe in gioco portando esperienze, ricordi, emozioni toccanti, che hanno arricchito la generale conoscenza e consapevolezza del gruppo.

Le partecipanti hanno fatto emergere interessanti riflessioni a partire dalla propria vita. Una regola del gruppo infatti è che ogni vissuto è valido e merita attenzione, ascolto e rispetto. Il non giudizio è fondamentale e consente di esprimersi al proprio massimo e al proprio meglio, in un contesto accogliente in modo incondizionato.

Il laboratorio

Si tratta di un tipo di esperienza che porta la riflessione sulle determinanti personali, familiari e socio-culturali dell’appartenenza di genere che influenzano l’autostima personale. Da questa base si lavora attraverso il confronto di vissuti che permette di non sentirsi “sola” o “diversa”. Infine, si dà spazio a piccole esperienze di auto-rafforzamento.

IL CERCHIO DI BANPO è una iniziativa pensata per essere itinerante e può essere riproposta in altre sedi, su richiesta di associazioni o enti che hanno a cuore le tematiche di genere, con particolare riferimento all’impatto sul benessere femminile.

PER MAGGIORI INFO


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Quando 1+1 fa sempre 1

Quando 1+1 fa sempre 1

La violenza psicologica come modo per annullare l’alterità

Breve sintesi dell’intervento

“Quando 1+1 fa sempre 1” è illustrativo di quello che accade in una relazione sentimentale non alla pari, basata sul potere e il controllo, non necessariamente ottenuto attraverso agiti palesemente violenti sul piano fisico. Le modalità più nascoste e subdole, dobbiamo poterle riconoscere per potercene difendere. Quello che accade è che una delle due individualità prevale al punto da annullare, schiacciare, cancellare completamente l’altra.

Quello che è in gioco nella relazione è il potere assoluto. Uno dei due necessita di dominare come un sovrano assoluto. Diversamente dal violento fisicamente, però non è un sanguinario, che soffoca nel sangue la ribellione. E’ un capo che vuole la sottomissione volontaria di una partner, la sua adulazione. Vuole che la partner non possa nemmeno immaginare la sua vita senza di lui.

Ora, se si vuole la sottomissione di qualcuno, senza commettere reati, senza minacciare di morte, senza picchiare, senza usare armi o oggetti contundenti, come si può fare? Si attacca la fiducia che la persona ha in se stessa, facendola vacillare, portandola ad avere dubbi sulle proprie capacità. Portandola alla convinzione di avere bisogno di appoggiarsi a qualcuno che la sorregga, la guidi e la protegga. È così che si ottiene il potere.

Chi fa violenza psicologica?

Il senso comune ci dice che tutti e tutte siamo capaci di fare violenza psicologica. Nella coppia può avvenire ad opera di un uomo o ad opera di una donna verso il rispettivo partner. Si è visto che può avvenire con le stesse modalità anche nelle coppie omosessuali.

Ma… la violenza ha anche radici culturali, viene di più legittimata quando viene fatta da un uomo. Per questo motivo è statisticamente più frequente e più micidiale e pericolosa. Anche i giudizi negativi sono più forti su una donna quando non si confà ai ruoli di genere. La cultura ancora profondamente patriarcale ci insegna fin da appena nati che le donne sono fatte per servire gli uomini. Dunque quando un uomo fa violenza psicologica criticando il disordine in casa, la cena fredda, la camicia non stirata, viene anche legittimato dalla cultura dominante. Invertendo i ruoli, una donna può certamente agire violenza psicologica imponendo pretese varie, ma non c’è un retroterra culturale che le dia ragione.

Una delle modalità attraverso cui avviene il soggiogamento di una persona è l’isolamento, fino anche alla reclusione tra le quattro mura. Anche qui, una donna che esce da sola o con le amiche lasciando il marito a casa può andare incontro a pesanti giudizi. Dunque quando un uomo fa pesare che non dovrebbe uscire senza di lui, è legittimato in parte da un pensiero che non è solo suo, ma di una parte della società in cui viviamo. Il contrario non accade. Una donna può agire nel senso di limitare la libertà dell’altro, criticando, accusando, insinuando, ma certamente andrà incontro al biasimo generale.

In definitiva, se in una coppia è l’uomo a dettare le regole, a dominare, si dice che sta facendo l’uomo. E questo è ok. Se è una donna ad avere il comando, si dice che non è una vera donna. Non è ok. Il primo viene premiato dalla società, la seconda viene biasimata.

Il bisogno di controllo: perché?

Tutti abbiamo bisogno di controllo: ci permette di percepire la realtà in modo stabile e meno minaccioso. Se io ho fiducia di poter esercitare un certo controllo sulla realtà che mi circonda, nulla di poi così terribile mi potrà mai capitare. Non sono alla mercé del caso, del fato, di eventi avversi fuori dal mio potere. Questo è vero per tutti quanti noi. E riguarda anche le relazioni sentimentali: il bisogno di sentire che la relazione sia stabile, sicura e che la persona che ho accanto è affidabile.

Per alcuni il bisogno di controllo è esasperato, diventa bisogno di potere sull’altro. Ha a che fare con il non accettare un minimo rischio. Ad esempio, in una coppia alla pari, dove entrambi sono liberi, è necessario accettare una certa dose di rischio di essere traditi o lasciati. Se non lo si accetta, perché si dà a questi fatti un significato particolarmente negativo, terribile (sono rifiutabile, abbandonabile, sono sbagliato, le mie relazioni sono un fallimento e quindi io sono un fallimento) allora si cercherà di scongiurare il più possibile questa evenienza, esercitando controllo. In una profezia che si autoavvera, di solito proprio diventando controllanti, invadenti, pretenziosi si è più esposti al rischio di essere lasciato, ma questa consapevolezza a volte manca.

Sicuramente chi ha dei tratti di personalità narcisistici, col suo bisogno di risplendere, essere posto al centro, avere un piedistallo su cui poggiare, può attuare modalità di manipolazione o violenza psicologica. Ma non sono necessariamente i narcisisti gli autori della violenza psicologica. A volte, la persona potrebbe avere semplicemente bisogno di auto-rassicurarsi sulla stabilità del proprio legame, quindi può trattarsi di una persona con dei tratti di personalità di tipo dipendente. A volte, più raramente, ci possono essere persone con dei tratti cosiddetti sociopatici, che a livelli di maggiore gravità possono trarre piacere dall’umiliare, schiacciare, nuocere all’altro, dimostrando a volte perversione, totale indifferenza per il vissuto di sofferenza dell’altro, assenza di rimorso.

In ogni caso le strategie per sottomettere psicologicamente l’altro non cambiano di molto. In certi casi però si possono raggiungere elevati livelli di crudeltà. Spesso sono uomini per un fattore unicamente culturale: sono educati a essere dominanti, pena il non essere considerati “veri uomini”.

La violenza psicologica

La violenza psicologica è tutto ciò che, attraverso le parole o modalità comportamentali, è volto alla demolizione dell’autostima e dell’autonomia di una persona, indebolendo la fiducia in sé e la capacità di autodeterminazione.

Naturalmente, più l’autostima è debole, più è facile rendere qualcuno dipendente.
Le modalità più tipiche con cui si manifesta possono essere più facilmente riconoscibili (minacce, intimidazioni, insulti, offese, denigrazioni, squalifiche) in quanto esplicite e capaci di veicolare un senso di paura o mortificazione. Oppure più difficili da discriminare, quando la modalità prevalente è di tipo manipolatorio (sottili ricatti, manipolazioni della realtà, tattiche volte a isolare qualcuno facendogli terra bruciata intorno, oppure sottili strategie di colpevolizzazione).

L’esito che si può raggiungere è appunto l’annullamento dell’altro come persona, l’azzeramento della sua volontà e libertà di pensiero.

La manipolazione affettiva

Manipolare significa letteralmente lavorare con le mani, plasmare a proprio piacimento. Di base, un bravo manipolatore, è un bravo comunicatore: ci sa fare a ottenere il risultato desiderato, attraverso la comunicazione verbale e non verbale.

Può manipolare la realtà dei fatti, negando che qualcosa sia avvenuto, minimizzando i fatti, oppure mentendo spudoratamente. Lo scopo in questo caso è rendere l’altra insicura circa la propria percezione della realtà. Spesso la manipolazione riguarda la responsabilità personale di quanto accaduto: il manipolatore suggerisce sistematicamente una colpa: per le cose che vanno storte oppure per il suo stesso comportamento (ad esempio insistendo sul fatto che “se ho sbagliato, sei tu che mi hai portato a questo”.)

Spesso il manipolatore utilizza l’arma del vittimismo: “soffro perché tu mi fai del male col tuo comportamento”. Il vittimismo funziona molto nelle relazioni di intimità per portare l’altro a modificare il proprio comportamento in una relazione affettiva tutti e tutte saremmo tentati fortemente di fare tutto ciò che è in nostro potere per far star bene l’altro. Se passa il messaggio che il disagio è dovuto al comportamento del partner (che ferisce, offende, manca di rispetto…) quest’ultimo si sentirà tutta la responsabilità di quel malessere e sarà indotto a modificare il proprio comportamento per alleviare le sofferenze della persona amata. Se questo ha anche una base culturale in termini di pretesa sulle donne di prendersi cura, è ovviamente molto più potente.

A volte la manipolazione passa attraverso il linguaggio non verbale, attraverso gesti anche piccolissimi ma con grande potere comunicativo, ad esempio uno sguardo di disapprovazione, un gesto seccato, una smorfia di disappunto, che la partner rileva. In una relazione affettiva, in cui si cerca di compiacere un partner, si modifica il proprio agire pur di avere una risposta positiva, di approvazione.

A volte la “punizione” può essere un cambiamento di umore, un periodo più o meno lungo di mutismo, oppure una certa freddezza nel modo di fare, che trasmette all’altra biasimo, rimprovero. Se non si riesce a intuire le ragioni di questo cambiamento umorale, ci si può ritrovare a continuare a domandarsi “cos’avrò fatto di sbagliato?”. È una condotta che nel tempo trasferisce un senso di inadeguatezza generale che la persona potrebbe portarsi dentro per molto tempo, in certi casi anche dopo la fine della relazione tossica.

Se queste modalità sono stabili, ripetute sistematicamente, possono avere un grande peso nel limitare qualcuno nelle sue scelte di autonomia.

Il ciclo della violenza

Alla fine degli anni ’70 la psicologa Lenore Walker concettualizzò uno degli strumenti più utili per decodificare quello che accade in una relazione maltrattante, solo apparentemente contraddittorio e confuso per chi lo vive dal di dentro, ma in realtà rispondente a un preciso schema funzionale al rafforzamento del potere dell’abusante.
Il pattern della violenza è composto da precise fasi che si susseguono e si ripetono.

L’accumulo della tensione

La fase di accumulo della tensione è caratterizzata da un crescente scontento e un sempre più visibile fastidio, che nei casi di violenza poi diventa rabbia nel maltrattante, ma può restare semplice maretta. Parallelamente, la donna sente salire dentro di sé un timore o un dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato (quando c’è violenza grave ha proprio paura), che la spinge a fare qualcosa per accondiscendere, calmare, accontentare l’altro; diventa più prudente e attenta a quello che fa.

Il maltrattamento

Nella seconda fase avviene il maltrattamento. Esplode la rabbia e la violenza verbale, quella che le donne ci riferiscono essere anche la forma di violenza che porta più conseguenze per la loro salute psicologica: insulti, offese, critiche aspre, accuse. Se anche non si arriva all’aggressione, è evidente che i litigi non sono alla pari. Chi vince è sempre solo uno; chi ottiene ragione è sempre lo stesso, mentre l’altro soccombe ed è sistematicamente nell’impossibilità di portare le proprie ragioni.

La “luna di miele”

Agli episodi di maltrattamento segue sempre una fase di calma, definita “luna di miele”, caratterizzata dalla volontà di riavvicinamento dell’uomo, che mette in atto una serie di comportamenti compensatori. Ritorna la calma, lui può anche scusarsi per aver detto quelle cose che non pensa, concede qualcosa di molto gradito alla partner. Si quietano le acque. In alcuni casi lui sembra tornare esattamente l’uomo di cui ci si è innamorate, portando la donna a pensare che, se la situazione potesse durare, sarebbe la relazione perfetta, quella che la rende felice, la famiglia che ha sempre voluto avere. L’uomo ha un comportamento del tutto antitetico e contraddittorio rispetto alla precedente fase: laddove la donna veniva svalutata e colpevolizzata (“sei la mia rovina, la causa di tutti i miei problemi”), qui viene esaltata e collocata in un ruolo salvifico (“Non posso vivere senza di te, sarei perso, la mia vita sarebbe finita, solo tu mi puoi guarire”).

Un aspetto da rilevare è che anche nell’apparente pentimento, molto difficilmente il violento si assumerà l’intera responsabilità dell’accaduto. Pur dichiarando il proprio rincrescimento e mostrando contrizione, tenterà sempre di insinuare l’idea che lei non avrebbe dovuto provocarlo, sfidarlo, comportarsi in modo scorretto verso di lui.

Il ciclo della violenza è è intrinsecamente manipolatorio, perché non permette di rendersi immediatamente conto di essere in una relazione tossica: lui ha sbagliato, ma poi ha cercato di rimediare, quindi non è cattivo, no? Mi ha insultato, perché in effetti un errore l’ho commesso, però allo stesso tempo mi adora e non mi fa mancare niente. E così si finisce per permanere in una relazione in cui il maltrattamento viene occultato dai comportamenti compensatori della “luna di miele”, che è, naturalmente, strumentale ad avere il controllo, a inibire la possibilità che lei si voglia svincolare.

Nei casi più gravi, quando il manipolatore ha anche tratti antisociali, possiamo finire nel campo della tortura psicologica e del gusto a minare ogni certezza dell’altra, vederla spaventata e disorientata, vederla nel panico e andare da lui per essere rassicurata, perché lui è paradossalmente anche il punto di riferimento affettivo e la fonte di rassicurazione.

Il continuo alternarsi di maltrattamenti e affettività positiva comportano grande confusione e difficoltà per la vittima a decodificare con chiarezza il problema e le sue cause. Il più delle volte la donna sceglierà di continuare a investire nella relazione, sforzarsi di modificare il proprio comportamento fino all’autosacrificio e oltre, fino al totale annullamento di sé, nella speranza che le cose possano funzionare.

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La sala d’attesa

La sala d’attesa

La sensibilizzazione sulla violenza di genere, le sue dinamiche e le vie per affrancarsene può passare attraverso diversi canali. Uno di questi è il teatro.

Vorrei qui presentare l’esperienza teatrale particolare portata avanti da un gruppo informale di attrici non professioniste di cui faccio parte e che ha preso il nome di “A casa di Teresa“, ad indicare il luogo dove il gruppo ha iniziato a riunirsi.

L’opera che viene rappresentata è “La sala d’attesa” di Stefania De Ruvo. In una non meglio definita sala d’attesa si ritrovano 5 donne, tutte diverse ma, come scopriranno parlando, accomunate da un destino simile. Sono tutte vittime della violenza maschile. Nella dialettica, talvolta anche conflittuale tra di loro, i personaggi portano la propria esperienza di violenza, condividendola e contribuendo a illustrare un particolare aspetto della violenza.

È questa l’occasione per fornire qualche elemento in più alla comprensione della spirale della violenza, per capire il perché è una trappola dalla quale è difficilissimo fuggire e le conseguenze che ha anche sul piano psicologico, oltre che fisico.

Chiara è il personaggio che mette in scena il classico “ciclo della violenza”.

Le esplosioni violente si alternano a fasi di rappacificazione, in cui il maltrattante apparentemente riconosce e chiede scusa per il suo comportamento abusante, promettendo di cambiare.

È questa una dinamica che ritroviamo spesso nei rapporti maltrattanti e che contribuisce a costruire una gabbia le cui sbarre sono difficili da oltrepassare. La donna che ne è prigioniera si trova nella confusione: alterna momenti di paura a momenti in cui rinasce la speranza che lui abbia capito e che le cose cambieranno. Il suo sforzo è quello di sopportare, in attesa che questo cambiamento si attui; nel frattempo si impegna a mantenere una immagine di famiglia perfetta all’esterno, per vergogna, ma anche per la disperazione di chi si aggrappa a quel poco che c’è di bello nella relazione.

Maria è una donna più matura, che racconta di una vita volta a scongiurare le esplosioni violente attraverso l’obbedienza, la sottomissione, fino al totale asservimento. È questo il dramma delle donne che spendono una intera esistenza pensando che se saranno più capaci, attente, docili, dedite al proprio marito, lui sarà più calmo e non avrà motivo per rimproverare o peggio, picchiare. È il personaggio che ci fa capire quanto tutto questo sia inutile, perché il maltrattante agirà violenza comunque.

Nonostante la vittima continuamente colpevolizzi se stessa, individuando le cause della violenza in un qualche errore commesso, di fatto la violenza cesserà solo se e quando lui lo vorrà, indipendentemente dal comportamento di lei.

Il personaggio di nome Cristina rappresenta l’esperienza di abuso in famiglia. I suoi monologhi sono uno spaccato sul dramma dell’incesto e sul clima di omertà familiare che rende sole, abbandonate ad un carnefice che non si può avere la forza di contrastare, per il potere schiacciante che un padre può avere su una figlia. Cristina dà anche voce alle pesanti conseguenze psicologiche che un simile trauma può avere per tutta la vita, in termini di autostima distrutta, senso di impotenza, depressione profonda.

Lucia è la donna forte, risoluta, che reagisce immediatamente. La consapevolezza di sé e dei propri diritti la porta a lasciare il partner violento dopo il primo schiaffo. Lucia diventa vittima di atti persecutori pesanti e con conseguenze drammatiche. La sua vicenda ci fa riflettere su quanto sia ridicola la questione che a volte viene posta quando si parla di violenza domestica: “E perché non lo lascia, se non le piace come la tratta?”

Uno dei motivi principali per cui una donna non lascia un uomo violento è che sa i rischi a cui andrebbe incontro. La violenza peggiora, quando lei decide di separarsi, con conseguenze a volte anche letali.

Lucia è il personaggio che paga il prezzo della sottovalutazione del pericolo.

L’ultimo personaggio, senza nome, è la donna che instaura col proprio carnefice un legame di patologica alleanza.

In psicologia viene definito “legame traumatico”, caratterizzato da una forma di dissociazione per la quale la vittima stessa nega la violenza, se ne distanzia, non la vuole vedere.

Lo fa innanzi tutto per sopravvivere lei a una realtà tanto orribile da poterla accettare solo negandola o trovandole giustificazioni. Il legame traumatico “normalizza” l’abuso, lo rende accettabile, ma mina profondamente una obiettiva percezione della realtà. Forse, se è senza nome, è anche perché è di tutte le donne di questo dramma quella che più perde se stessa, annullandosi.

Il progetto che ruota intorno a “La sala d’attesa” ha molteplici obiettivi:

  • mettere in scena non tanto la violenza quanto la sua narrazione, attraverso le parole delle donne, ridando quindi voce a coloro che voce non hanno avuto;
  • sensibilizzare e far conoscere le dinamiche e le conseguenze della violenza, per riconoscerle, difendersene, denunciarle alle prime avvisaglie, anche quando riguardano persone a noi vicine;
  • contribuire a finanziare associazioni private che gestiscono importanti presidi: centri e sportelli antiviolenza innanzi tutto.

Il gruppo “A casa di Teresa” è a disposizione delle varie realtà territoriali a cui interessa fare sensibilizzazione attraverso questa modalità. Scopri il loro progetto.

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Protocollo Napoli

Protocollo Napoli

Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio

Questo studio recepisce e attua il “Protocollo Napoli”, le linee-guida in materia di consulenza psicologica in caso di violenza, nella cornice della Convenzione di Istanbul.

Nei casi di violenza domestica e violenza assistita da parte dei bambini, gli esperti possono essere chiamati a valutare le condizioni per l’affidamento dei figli nella fase di separazione. Affinché sia garantita la tutela psicofisica non solo dei minori ma anche delle loro madri, vi sono dei principi ineludibili ai quali richiamarsi per gestire il caso non come una comune separazione, ma una situazione nella quale la sicurezza delle vittime della violenza va messa al primo posto.

Le colleghe Caterina Arcidiacono, Antonella Bozzaotra, Gabriella Ferrari Bravo, Elvira Reale ed Ester Ricciardelli definiscono i seguenti punti:

a) Valutare la presenza di violenza domestica nei confronti della madre (IPV)
b) Sollecitare gli esperti a un sempre maggiore approfondimento della specificità
c) Promuovere la distinzione tra intervento psicologico valutativo e trattamento
d) Promuovere l’ascolto del minore, partendo dal diritto alla ‘Safety First’
e) Promuovere il Dovere-Diritto alla genitorialità (Art. 30 della Costituzione)
f) Promuovere l’adesione solo ai costrutti scientifici validati da organismi internazionali
g) Promuovere modalità di affido che non alterino le abitudini di vita del minore

Valutare se nella famiglia il padre agisce violenza fisica, psicologica, sessuale sulla madre è un elemento di primaria importanza, alla luce del quale comprendere eventuali inadeguatezze sul piano della genitorialità: per il padre in termini di pericolosità; per la madre in termini di sintomatologia traumatica da non confondere con disfunzioni o fragilità personali più strutturali.

Download del protocollo

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Catastrofi e violenza di genere

Catastrofi e violenza di genere

17-19 maggio 2019: formazione ARES (Associazione Regionale di Emergenza Socio-sanitaria) “Un’ora dopo…one week later – Interventi integrati in medicina delle catastrofi.”

In questo contesto ho potuto gestire un laboratorio rivolto ai medici, infermieri e psicologi dell’emergenza su “Catastrofi e violenza di genere”.

Diversi studi, infatti, suggeriscono che nell’immediatezza di una catastrofe (terremoti, inondazioni, uragani, ecc.) e nelle fasi successive, il tasso di violenza sulle donne e sui bambini tende ad aumentare in termini di frequenza e gravità. La violenza nelle catastrofi è stata poco indagata, tuttavia alcuni studi sistematici sull’argomento mostrano come dopo un disastro tendono ad incrementare la violenza domestica, la violenza sessuale e l’abuso sui minori.

Quando una donna è già vittima di violenza da parte di un partner, è probabile che sperimenti una escalation in termini di frequenza e gravità, subito dopo una catastrofe. La motivazione centrale di ogni forma di violenza sulle donne è il bisogno di potere e controllo del maltrattante. La percezione di controllo naturalmente vacilla in concomitanza con il disastro; di qui l’esigenza di alzare il tiro e ripristinare il controllo attraverso l’unica modalità che conosce: sottomettere, umiliare, schiacciare la volontà dell’altra.

Nelle fasi successive a un disastro, le donne e i bambini esposti a queste forme di violenza vanno più facilmente incontro a un disturbo post-traumatico da stress o altri disturbi d’ansia o depressivi, in quanto  vengono combinati gli effetti di più eventi traumatici.

La situazione delle vittime è particolarmente critica per le donne, in quanto devono fronteggiare l’esacerbazione di comportamenti violenti ai loro danni, nelle già difficili condizioni di sopravvissute ad un disastro:

  • viene meno la loro rete informale di sostegno sociale, aumenta l’isolamento e l’esposizione al controllo del proprio carnefice;
  • la rete formale di supporto e protezione per le donne vittime di violenza collassa. Nella fase dell’emergenza disastro, può essere più difficile ottenere aiuto da forze dell’ordine e servizi locali, a loro volta surclassati e impegnati a fronteggiare l’emergenza;
  • la perdita di beni e risorse stressa il conflitto familiare e riduce le risorse a disposizione della donna per poter interrompere la relazione e mettersi in sicurezza con le proprie forze;
  • Inoltre, la precarietà delle condizioni di vita rende le donne più vulnerabili ad aggressioni di estranei e a stupri – la motivazione di questo fenomeno risiede sempre nel bisogno di potere e controllo.

Il laboratorio è stata una vera e propria esercitazione volta a incrementare la capacità di riconoscere i campanelli di allarme di una relazione maltrattante e fornire spunti per gestire il caso in un contesto emergenziale come quello di un ospedale da campo.

Grazie ad ARES per aver inserito all’interno del proprio programma formativo anche questo laboratorio, dimostrando attenzione alle esigenze delle donne anche in situazioni in cui normalmente tutti gli sforzi sono concentrati a fronteggiare un’emergenza.


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Uomini maltrattanti e come non cascarci di nuovo

Uomini maltrattanti e come non cascarci di nuovo

Il 18 gennaio 2019 si è tenuto  il convegno dal titolo “Ciao maschio. La rappresentazione del maschile nella cultura della violenza.”

All’evento, organizzato presso la Regione Marche dalla cooperativa Polo 9, ho partecipato rappresentando il centro antiviolenza di Ancona. Dopo che sono state discusse le radici culturali del patriarcato e della rappresentazione del maschile che sottostà alla cultura della violenza sulle donne, sono stati presentati diversi servizi che offrono un percorso di consapevolezza e di responsabilizzazione per uomini che hanno agito violenza nelle relazioni di intimità, in particolare il punto V.O.C.E. che in Ancona ha istituito lo sportello di ascolto per maltrattanti. Come centro antiviolenza, ho avuto il ruolo di riportare l’attenzione sul vissuto delle donne, i soggetti che pagano il prezzo più alto di una mascolinità tossica, in termini di perdita di libertà, autonomia e sicurezza personale.

Ho così potuto portare la mia esperienza di affiancamento delle donne che desiderano liberarsi dalla violenza e sottolineato come anche una donna molto determinata nella sua decisione di lasciare un uomo maltrattante, possa tornare sui propri passi quando lui si mostra pentito e sofferente e dichiara di voler intraprendere un percorso di cambiamento.

Ma come facciamo a sapere se le sue dichiarazioni di buona volontà sono autentiche oppure non sono altro che una manipolazione, una tattica per convincere la donna a tornare sui propri passi e così riprendere potere su di lei?

La decisione di lasciare un uomo, benché violento, è spesso tormentata, difficile, dolorosa e carica di dubbi, soprattutto se la donna non ha una completa autonomia economica e si hanno magari dei figli insieme.

“Lasciarlo o rimanere?”

“Denunciare o no?”

“Le ho davvero provate tutte o c’è ancora qualcosa che posso fare per farlo cambiare?”

“E quanti tentativi devo fare prima di darmi per vinta e andare per la mia strada?”

La scelta di interrompere la relazione è ostacolata così da una serie di auto-accuse del tipo: “Se me ne vado sarò colpevole di aver sfasciato la famiglia, è una scelta egoistica, farò soffrire i miei figli togliendogli il padre, avrò dimostrato di essere un’incapace e un fallimento dome moglie e come madre”. D’altra parte tutti questi pensieri sono ampiamente rinforzati dal maltrattante, che non manca occasione per esplicitare e dare voce a queste accuse.

Ovviamente, se si aggiunge la dichiarazione di aver compreso i propri errori, di aver già fissato un appuntamento da uno psicologo, di voler cambiare seriamente stavolta, ecco che lei può essere tentata di offrire un’altra opportunità, per il bene della famiglia e dei figli, oppure semplicemente perché vuole credere alle promesse di lui.

“Che faccio, non gliela do una chance, proprio adesso che lui sembrerebbe che abbia capito?”

“Sono così cattiva ed egoista da chiudergli la porta in faccia, proprio quando fa lo sforzo di cambiare?”

“Ho sopportato per tanti anni e proprio ora che forse ci siamo cosa faccio, mollo?”

Naturalmente, qualunque essere umano ha la capacità di cambiare e crescere, compresi gli uomini che hanno agito violenza. I dati forniti dai colleghi che operano con i maltrattanti, tuttavia, non sono incoraggianti: pochissimi uomini violenti si rivolgono a questi servizi e ancora meno completano il percorso di consapevolezza che essi offrono. La statistica è impietosa: se un uomo violento dice che è cambiato, è più probabile che sia un inganno, piuttosto che la verità. Non solo: ad ogni ritorno tra le braccia di un uomo violento, ci si espone inevitabilmente ad un rischio di nuove e più gravi violenze. Si tratta quindi di un momento delicato e potenzialmente pericoloso.

Ma da quali elementi si può capire se le parole di lui corrispondono ad una vera spinta a cambiare le proprie modalità relazionali, nella direzione del rispetto? Ecco delle frasi tipiche, che le donne vittime di violenza si sentono dire dai propri maltrattanti per convincerle a tornare da loro. Analizziamole insieme:

“Sono già andato due volte dalla psicologa, come vedi io adesso sono cambiato, quasi non mi riconoscerai, ho capito quanto ti amo e quanto ho bisogno di te per vivere”.

Un percorso di crescita personale di sole due sedute è piuttosto miracoloso. Mettere in discussione fino alle radici i propri presupposti che giustificano comportamenti violenti, di umiliazione, fino alle torture personali gravi, non si fa con un impegno così esiguo. In secondo luogo, “ho bisogno di te per vivere” rivela un attaccamento morboso che è un segnale d’allarme: è proprio l’impossibilità di tollerare sul piano affettivo di perdere la persona amata vista come un oggetto di possesso, a motivare le persecuzioni e la limitazione della libertà della donna.

“Torna a casa, ti prego, faccio tutto quello che mi chiedi, lo giuro, sto troppo male senza di te, sii buona, così mi fai soffrire.”

Lui dà a intendere che cederà il suo potere in favore di lei, facendo tutto quello che lei desidera. Solo fermandosi alla superficie questo può essere rassicurante: lui non sembra infatti possedere l’idea di un rapporto veramente alla pari, fatto di scambio e mediazioni. O mi prendo tutto il potere e ti schiaccio, oppure graziosamente lo cedo tutto a te. In ogni caso, lui non perde occasione per farla sentire in colpa, attribuendole la responsabilità della sua sofferenza. La colpevolizzazione è da sempre una delle armi preferite degli uomini violenti.

“Lo so che ho sbagliato ad alzare le mani su di te, adesso l’ho capito, e anche a dirti tutte quelle brutte cose. Mi faccio schifo se penso a quello che ti ho fatto. Se tu magari riesci ad essere più comprensiva con me, io di sicuro ti mostrerò che posso essere una brava persona.”

Lui apparentemente riconosce di aver sbagliato. Il problema è sempre la sottile manipolazione attraverso la quale suggerisce che un po’ dipende anche da quanto lei riesce a essere “comprensiva”. E’ una inaccettabile condivisione delle responsabilità. Finché lui non si assume la totale responsabilità della violenza che fa, stiamo perdendo tempo.

“Da quando te ne sei andata, ho capito tutto, ho capito che ho sbagliato tante cose. Ma adesso gli errori che ho fatto li ho capiti, è stata tutta colpa mia, ma ora ti prego dammi un’altra opportunità.”

Non ci caschiamo: lui sembra volersi accollare tutte le responsabilità, ma in modo troppo vago e sfuggente. Se si è veramente consapevoli del problema, si deve essere capaci di nominarlo. Il problema della violenza è il fatto di non riuscire ad accettare una partner come una propria pari, con la sua libertà e i suoi diritti. Il problema della violenza è il bisogno di potere e di controllo su di una donna per potersi sentire un “vero uomo” (qualunque cosa voglia dire). Se lui non riesce a riconoscerlo esplicitamente, si tratta di parole vuote, dietro le quali non vi è alcuna consapevolezza.

E infine, attenzione: anche quando un uomo che ha agito violenza riesce a prendere consapevolezza del problema e ad assumersene la responsabilità, questo è comunque l’inizio di un processo di cambiamento, non la fine. E la strada è lunga.

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L’abuso sessuale in psicoterapia

L’abuso sessuale in psicoterapia

Ogni relazione di potere, potenzialmente, può implicare una qualche forma di abuso da parte di chi è nella posizione dominante. Il rapporto psicoterapeutico non fa eccezione. Per sua natura è un rapporto basato sulla fiducia. E’ asimmetrico e non paritario: uno dei due si affida all’altro per affrontare e risolvere un problema di natura personale. Le confidenze anche molto intime sono unidirezionali (il terapeuta non entra nei dettagli della propria vita) e si suppone vengano trattate dal professionista con competenza e rispetto.

Uno dei modi in cui il rapporto può uscire da determinati confini di correttezza e non rispondere più alle regole del codice deontologico, è quando prende le sembianze di una relazione sessuale tra terapeuta e paziente.

I codici deontologici delle professioni sanitarie vietano sempre i comportamenti sessuali con i pazienti, fin dal giuramento di Ippocrate. Così recita l’art. 28 del Codice deontologico degli psicologi italiani:

“[…] Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. […]”

Nessuno psicoterapeuta serio e preparato chiederebbe mai un contatto fisico di natura sessuale (toccamenti, baci, abbracci sensuali) e nemmeno frequentazioni al di fuori delle sedute (appuntamenti galanti, telefonate intime, ecc.). Tuttavia sappiamo che talvolta questo può accadere, con gravi conseguenze per la salute psicologica dei pazienti.

Negli anni ’90 iniziarono studi negli Stati Uniti volti a evidenziare il fenomeno e venne appurato che il 10% dei professionisti interessati dalla ricerca avevano avuto un qualche tipo di coinvolgimento sessuale con pazienti. Perlopiù si trattava di psicoterapeuti uomini con pazienti donne. Non sorprende, perché come già detto, qualunque tipo di rapporto di potere può avere al proprio interno questo tipo di deviazione, in quanto con grande facilità chi è nella posizione di forza grazie alla sua autorevolezza e presunta competenza può approfittare del proprio status per influenzare pensieri e comportamenti e ottenere in modo illegittimo favori sessuali senza nemmeno l’uso della forza fisica.

La relazione psicoterapeutica può in questi casi sfociare in una vera e propria condizione di dipendenza, in cui la paziente è succube del proprio terapeuta, il quale può utilizzare in modo manipolatorio le tecniche di cui dispone per soggiogare, fino alla commissione di veri e propri reati di abuso. Può motivare determinate richieste illegittime presentandole come il risultato di ricerche scientifiche o delle più recenti teorie, oppure come una disinibizione liberatoria, una forma di rilassamento, un lasciarsi andare benefico, un modo per sperimentare relazioni mature come la paziente non ha potuto sperimentare nella sua vita, ecc.

La paziente vittima di questi abusi può sentirsi confusa, in conflitto tra il desiderio di risolvere i propri problemi affidandosi ciecamente al professionista e le proprie sensazioni di disagio, di disgusto o di violazione che avverte.

Questo tipo di interazione non è etico, è illegale, passibile di denuncia penale e motivo di radiazione dall’albo professionale.

Si traduce sempre in un danno economico perché la paziente si trova a dover pagare delle sedute dove non si affrontano i problemi per i quali si è rivolta al professionista, ma soprattutto in pesanti danni psicologici, risultato delle manipolazioni psicologiche e degli abusi sessuali. Come tutti i carnefici, anche il professionista che fuoriesce dai confini del rapporto terapeutico anteponendo i propri desideri sessuali agli obiettivi della psicoterapia, fa ampio ricorso all’inganno, all’insinuazione di sensi di colpa, facendo crescere quel senso di inadeguatezza e di vergogna che gli garantisce il silenzio della sua vittima. In questo modo, qualunque sia la problematica psicologica per la quale la paziente ha deciso di intraprendere un percorso personale, questa non può che peggiorare a fronte di un indebolimento dell’autostima e del senso di controllo sulla propria vita. Inoltre, anche una volta fuori da questa trappola, la vittima potrebbe non riuscire più a risollevarsi e non trovare il coraggio di intraprendere un’altra terapia che l’aiuterebbe, avendo perso fiducia nella psicoterapia in quanto tale.

Intraprendere la psicoterapia giusta scaturisce dall’attenzione e dalla consapevolezza dei propri diritti che un paziente ha nel momento della scelta. Ogni paziente ha il diritto di sentirsi a proprio agio e non vedere violati i propri confini da parte di chi è tenuto all’estrema correttezza proprio in ragione della posizione di vantaggio e di autorevolezza che ricopre.

Se si desidera segnalare al competente Ordine professionale una violazione del codice deontologico da parte di uno psicologo o psicoterapeuta della Regione Marche, basta compilare il form messo a disposizione dall’Ordine. Gli altri Ordini regionali hanno probabilmente modalità simili di segnalazione, basta fare una ricerca nel web. Naturalmente è possibile denunciare queste forme di abuso anche all’Autorità giudiziaria.

Bibliografia:

Singer M.T., Lalich J. (1998) – Psicoterapie “folli”. Conoscerle e difendersi. Ed. Erickson

Codice deontologico degli psicologi italiani

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo,  può essere d’aiuto un supporto emotivo specialistico.

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