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L’abuso nel post-separazione

L’abuso nel post-separazione

La violenza nelle relazioni di intimità è violenza di genere, che si esprime nelle varie forme di: violenza fisica, sessuale, verbale, emotiva, economica. Quando la relazione finisce, gli abusi non si interrompono, ma si adattano al nuovo contesto del post-separazione. La violenza solitamente tende ad aumentare in questa fase, divenendo in alcuni casi anche più terribile rispetto a quando si divideva lo stesso tetto. Il maltrattante tende a esercitare potere e controllo prendendo di mira i bambini e la genitorialità della ex compagna, la sua autonomia economica e la sua credibilità.

Le battaglie, che si incentrano sulla custodia dei bambini, sono alimentate dal desiderio del maltrattante di vincere, avere controllo, ferire o punire la donna che ha osato sfidarlo rivendicando la sua libertà.

Di seguito la “Ruota del potere e del controllo nel post-separazione”, che ho tradotto per Associazione Artemisia di Fabriano partendo dal lavoro di  OMB – One Mom’s Battle.

Gli abusi che coinvolgono i bambini e le bambine

La cosiddetta “contro-genitorialità” si manifesta minando di proposito il lavoro fatto dal genitore sano: interrompere le routine sane di sonno e alimentazione, contraddire le regole educative poste dall’altro genitore, ignorare le responsabilità scolastiche, impedire lo svolgimento dei compiti a casa, creando confusione nei bambini e un sovraccarico al genitore sano per ristabilire le linee di condotta adeguate. Il maltrattante potrebbe inoltre non condividere importanti informazioni sui bambini (ad esempio inerenti la salute o la scuola), usare i bambini per spiare o acquisire informazioni sull’ex partner, oppure forzare per avere i bambini con sé anche quando non sarebbe utile nel loro interesse.

La genitorialità del genitore maltrattante è spesso trascurante o addirittura abusiva. I bambini potrebbero essere esposti a contenuti inappropriati, in TV o nei videogiochi, oppure a persone tossiche. Per guadagnarsi benevolenza, il genitore abusante potrebbe usare metodi intimidatori o manipolativi, facendo leva sui loro bisogni, stati d’animo o paure. Spesso opera in modo manipolatorio per metterli contro l’altro genitore.

I bambini vengono pretesi in virtù del proprio diritto come genitore, ma per un uomo violento prendersi cura di loro è pesante, perché richiede autosacrificio, cosa di cui non è capace, quindi affibbia spesso i bambini a qualcun altro: i suoi genitori, una babysitter, chiunque purché non sia la madre.

Gli abusi sulle donne

Accanto alle strumentalizzazioni che colpiscono i figli, continua parallelamente l’operazione di distruzione dei legami e delle reti sociali. Attraverso la diffamazione o mettendo in giro menzogne e pettegolezzi che ne distruggono l’immagine e la reputazione, il maltrattante cerca sempre di isolare la donna dai familiari, dagli amici e dalla comunità. La dipinge come pazza, instabile, pretenziosa, disonesta.

Lo stesso intento malevolo può portare anche all’uso abusivo del sistema giudiziario, che comporta spesso una vera e propria devastazione sul piano finanziario a causa delle spese legali che la donna deve sostenere in un confronto spesso impari dal punto di vista delle possibilità economiche.

Il controllo economico, una sfaccettatura della violenza domestica che crea dipendenza, continua nel post-separazione attraverso l’erogazione irregolare o assente del dovuto mantenimento o l’impedimento ad avere e mantenere un lavoro. Ad esempio il genitore abusante potrebbe non restituire vestiti dei figli obbligando l’altra ad acquistarne continuamente di nuovi, distruggere i giocattoli fingendo che sia solo un piccolo incidente, rifiutare di contribuire a determinate spese necessarie per i figli, oppure pretendere un programma di visita che non tiene conto delle esigenze lavorative di lei.

Inoltre potrebbero continuare le aggressioni e le intimidazioni, sotto forma di atti persecutori: inviare un numero impressionante di messaggi attraverso i vari canali, di varia natura, dal manipolatorio al minatorio, creando preoccupazioni persistenti, irrequietezza e continuo stato d’allerta.

Il femminicidio è sovente l’esito di un fallimento di tutte queste strategie di potere e controllo sull’ex partner, tanto che a volte le donne temono di contrastarle su tutta la linea, in modo da “tenerlo buono”, dandogli piccole soddisfazioni che non minano completamente il suo senso di controllo.

Le conseguenze per le vittime

L’abuso nel post-separazione ha conseguenze a lungo termine sia per le donne che per i loro figli. Crea un persistente senso di minaccia, talvolta sottile e difficile da decodificare, soprattutto per i più piccoli.

I bambini e bambine assistono alle umiliazioni continue sulla propria madre, sono strumentalizzati, manipolati, confusi da messaggi contraddittori, spaventati per se stessi e per il genitore tutelante.

Le donne sentono, dopo tanti sforzi volti a liberarsi da una relazione tossica, di non essere affatto libere, e di essere esposte a un carico di stressors perfino superiore a quando stava insieme al partner maltrattante. Non ci si stupisce quindi che sono maggiormente vulnerabili al rischio depressivo oppure a ripensamenti che le riportano all’interno della relazione abusante.


Immagine in evidenza: da Freepik

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Il senso di sé dopo la violenza di genere

Il senso di sé dopo la violenza di genere

Subire reiteratamente violenza di genere ha un indubbio impatto sul senso di sé.

La continua critica, le punizioni irragionevoli per comportamenti innocui, le manipolazioni della realtà che colpevolizzano in modo sistematico, il controllo stringente esercitato su ogni aspetto della propria vita hanno conseguenze durature su come la persona pensa, vede e parla di se stessa.

Centrale è il sentimento della vergogna, non solo rispetto a quanto accade all’interno della relazione maltrattante, ma anche e soprattutto rispetto a quello che si sente di essere.

Le parole più comuni che ho sentito pronunciare alle donne vittime di maltrattamenti sistematici quando si riferiscono a se stesse sono:

  • cattiva
  • sbagliata
  • indegna
  • non amabile

e una serie di sinonimi, tutti col significato di “non vado bene”. Mentre ci si sente in colpa per qualcosa di sbagliato che si sente di aver fatto, la vergogna è un sentimento che riguarda il “come sento di essere come persona”. All’estremo, la vergogna può diventare disprezzo di sé.

Oltre a essere maggiormente esposte a esperienze di ansia e depressione, anche una volta concluso il rapporto abusante, chi fa questo tipo di esperienza tende a ritirarsi, a evitare esperienze, a nascondersi, a diventare quasi invisibili. C’è una mancanza di motivazione ad attivarsi positivamente nel fare, dal momento che il pensiero sottostante diventa: “non mi merito di essere felice o di stare bene”.

Senza dubbio questo vissuto è tra le conseguenze traumatiche più gravi e durature connesse con la violenza di genere.

La ricerca ci dice che l’esperienza della vergogna è connessa col funzionamento del nostro cervello rettiliano, il che la rende viscerale, profonda, ma soprattutto inaccessibile sul piano cognitivo. Detto in parole povere: non basta dire a se stesse che “sono una brava persona”, “sono una persona di valore”, ecc. È necessario fare esperienze profonde di auto-compassione, che permettono di SENTIRE nel corpo emozioni di accoglienza, calore, rispetto.

C’è un repertorio di tecniche e strumenti, all’interno della terapia cognitivo-comportamentale, che mirano proprio a questo scopo e che rendono piano piano possibile un rapporto con se stesse più autentico, compassionevole e meno giudicante.

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Il lutto. La vita dopo una perdita

Il lutto. La vita dopo una perdita

Quello della perdita è un tema che prima o poi dobbiamo porci. Andare avanti con la propria vita implica attraversare una serie di stati d’animo del tutto fisiologici.

La letteratura psicologica mette in luce una serie di fasi dell’elaborazione del lutto (Elisabeth Kübler Ross). Vi è una soggettività per cui ognuno di noi potrebbe sperimentare alcune fasi e non altre, oppure viverle con un diverso ordine. Potrebbe aiutarci molto, tuttavia, capire come in un dato momento potremmo sentirci e perché.

1. NEGAZIONE: “Non è possibile che sia accaduto”

È una reazione normale ed è spesso la prima. La negazione è un meccanismo di difesa che smorza l’emozione prorompente immediata, permettendoci di gestire la prima ondata di dolore che non siamo ancora pronti ad affrontare. La negazione non ha a che fare con una carenza di comprensione, al contrario significa che ci sentiamo paralizzati di fronte a una realtà inammissibile che travalica la nostra capacità di far fronte.

Avendo una funzione protettiva, la negazione va accettata come funzionale, soprattutto se la perdita è recente. Possiamo essere onesti verso i nostri sentimenti, piangere liberamente, anche di fronte ad altri. La distrazione (ad es. impegnarsi in molte attività) può alleviare l’intensità del dolore temporaneamente, ma non aiuta a procedere nell’elaborazione emotiva della perdita. Naturalmente non c’è la cosa giusta o sbagliata: ci confronteremo con tutto ciò che ci ricorda la persona a piccoli passi e quando ci sentiremo pronti.

2. RABBIA: “Non è giusto che sia accaduto!”

Un’altra reazione molto normale è la ricerca dei responsabili della perdita, su cui scagliare la propria rabbia. Potremmo prendercela con i colpevoli (più o meno realmente responsabili della morte), verso il mondo ingiusto, verso noi stessi per non aver impedito l’evento o per non esserci stati negli ultimi momenti della sua vita, verso i soccorritori che non hanno fatto abbastanza. Potremmo rivolgere la nostra rabbia anche alla persona deceduta, per averci abbandonato. Le nostre accuse potrebbero talvolta essere razionalmente poco logiche, tuttavia anche questa è una fase necessaria, perché stiamo iniziando a riconoscere la realtà e non siamo ancora pronti a farci attraversare dal dolore.

Anche la rabbia ci protegge e quindi è bene viverla fino in fondo senza vergognarcene, esprimendola o urlandola. Possiamo farlo mentre siamo da soli, oppure con una persona capace di comprendere questo sentimento e di ascoltarci senza giudizi.

3. NEGOZIAZIONE: “E se invece le cose fossero andate diversamente?”

A mano a mano che sempre di più si prende atto della definitività della perdita, il dolore avanza e per alleviarlo potrebbero essere d’aiuto delle temporanee vie di fuga, per costruirci un’idea di speranza e darci il tempo di riadattarci alla realtà della situazione. Alla ricerca di risposte, potremmo impegnarci in un rimuginio volto ad analizzare, capire, spiegare l’accaduto. Ci chiediamo cosa sarebbe accaduto se qualcosa fosse andato un po’ diversamente o cosa potrebbe accadere in futuro. Esplorare le possibilità ci fa avvertire di meno il senso di impotenza.

Anche se ci dà un temporaneo sollievo, potremmo finire per impiegare molto tempo a rimuginare su pensieri di tipo “E se…” Le speranze che ci costruiamo in questa fase saranno con ogni probabilità deluse. Per questo è importante riuscire a parlarne a familiari e amici per avere supporto.

4. DEPRESSIONE: “Mi concedo di stare male”

La depressione è una fisiologica reazione al lutto e in questi casi non parleremmo di disturbo mentale. Ci si sente tristi, demotivati, spossati, privi di energie o senza emozioni. Potrebbe comparire un disturbo del sonno o un calo dell’appetito. Per superare la perdita è necessario esplorarla in tutta la sua profondità. Non spaventiamoci di questa sofferenza. È temporanea, anche se potremmo essere tentati di pensare che sarà così per sempre.

Non diamo troppo ascolto a chi pretenderebbe di dirci come ci dovremmo sentire (“fatti coraggio”, “sii forte”, “non piangere” “tirati su, altrimenti ti ammali”). Confrontiamoci col nostro dolore, guardiamolo negli occhi, invece di oscurarlo, magari con comportamenti dannosi (alcool, droghe, ecc.). In questa fase aiuta parlare con persone capaci di ascolto empatico, esprimere le proprie emozioni in modi creativi (scrivere una lettera alla persona cara, creare un album di foto, ecc.) o attraverso iniziative anche collettive che ricordano e onorano la persona defunta (ad es. una commemorazione).

4. ACCETTAZIONE: “Posso andare avanti con la mia vita”

In questa fase abbiamo preso atto che nulla cambierà la realtà. Non necessariamente staremo bene e la persona ci mancherà comunque. L’accettazione è il risultato di un processo di elaborazione, che tuttavia non dobbiamo aver fretta di raggiungere.
A partire da qui, riusciremo ad adattarci alla nuova realtà delle cose e ricominciare a investire nella nuova vita senza la persona cara.

L’accettazione non è un punto di arrivo, ma un processo che continua. Concediamoci di vivere e trarre piacere dalla vita senza sensi di colpa. Ci saranno momenti in cui pensando alla grave perdita saremo tristi. Possiamo però sempre più costruirci una vita ricca di gratificazioni. Riusciremo a farlo nella misura in cui ci concederemo di essere felici senza che questo sia percepito come una mancanza di rispetto verso la persona che non c’è più.

Il tempo di permanenza in una specifica fase è variabile e soggettivo. Dipende soprattutto dall’efficacia delle azioni che mettiamo in atto per gestirle, che possono essere più o meno funzionali. I sentimenti che accompagnano la perdita, in altre parole, non sono qualcosa che subiamo supinamente, ma qualcosa su cui il nostro comportamento agisce.

Un supporto psicologico nelle fasi più delicate può essere di aiuto proprio per questo. Se pensi di averne bisogno, puoi chiedere una consulenza alla Dott.ssa Elena Grilli.

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La tragedia della Lanterna azzurra. Quattro consigli ai genitori dei ragazzi sopravvissuti

La tragedia della Lanterna azzurra. Quattro consigli ai genitori dei ragazzi sopravvissuti

La strage di ragazzi che si è consumata la notte del 7 dicembre a Corinaldo, è una tragedia capace di sconvolgere la vita delle persone direttamente interessate in primis, e di rimbalzo anche quella dell’intera comunità.

Sperando di essere d’aiuto alle famiglie che ne sono state toccate in modo più o meno diretto, vorrei portare la riflessione su alcuni aspetti che sul piano psicologico meritano attenzione e cura. Se non parlo alle famiglie dei ragazzi che non ce l’hanno fatta, è per la consapevolezza che un articolo di blog non può dare risposte o consolazione in questi casi. Questo articolo è molto breve per un argomento complesso e per forza di cose è necessario semplificare molto. Mi sono sentita di scriverlo a partire da domande e dubbi che mi sono stati rivolti nello sportello d’ascolto del Comune di Senigallia messo a disposizione delle vittime e dei loro familiari e in cui ho prestato servizio nei giorni successivi al dramma della Lanterna azzurra.

IL PRIMO CONSIGLIO: DISCONNETTERSI TEMPORANEAMENTE DAI SOCIAL E IGNORARE I MEDIA

Cari genitori dei ragazzi e ragazze che quella notte erano alla Lanterna azzurra, cercate, se potete, di non farvi confondere dai discorsi saccenti e vuoti che negli ultimi giorni si sono scatenati nei social e nei media, perché i vostri figli hanno bisogno di voi e della vostra lucidità. Disconnettetevi e salvaguardatevi.

Una delle reazioni più disfunzionali di una comunità dopo una tragedia è la veloce e irriflessiva ricerca di un capro espiatorio, qualcuno da incolpare additandolo e mettendolo alla gogna nei media, nei social, nei discorsi vari. Questo accade per un motivo preciso, che non ha a che fare con la cattiveria: tutti – ma proprio tutti – abbiamo paura di una casualità cieca che in qualunque momento ci può colpire in modo indiscriminato. Accusare i giovani che non hanno più i valori di una volta, piuttosto che genitori incapaci, piuttosto che cantanti con un linguaggio criticabile, ha l’unica funzione di tranquillizzare noi stessi rispetto alla possibilità che la stessa disgrazia possa capitare a noi o ai nostri cari. Si tratta di un meccanismo di difesa per cui la paura della morte viene gestita attraverso un illusorio quanto fragile senso di controllo sugli eventi: “A chi si comporta bene, non capitano queste cose. Io mi comporto bene, quindi…”

L’intera comunità va alla ricerca di un proprio modo di “sopravvivere” emotivamente a quanto accaduto. Le voci si moltiplicano, ognuno deve dire la sua, ci si arrabbia puntando il dito sui presunti responsabili. E si finisce, paradossalmente, per accanirsi sulle vittime, colpevoli di “essersela cercata”. Ora, è del tutto ovvio che delle responsabilità ci sono e andranno giustamente accertate, ma da chi ha il ruolo di farlo. Per il resto sono solo discorsi che nella migliore delle ipotesi sono vuoti, nebulosi, fuorvianti; nella peggiore delle ipotesi sono dannosi, tossici e di ostacolo alla guarigione dei vostri figli, oltre che vostra.

Non date peso ai giudizi sulle vostre scelte come educatori. Meglio: evitate proprio di entrare in contatto con certi discorsi. Liquidate velocemente chi sottolinea quanto fosse inopportuno lasciare partecipare i propri figli a quello spettacolo. Il problema quella notte non è stato un problema educativo, ma di gestione della sicurezza. Se fosse cosa buona o meno assecondare un figlio nella richiesta di partecipare a quella serata, con quel cantante, che canta quelle canzoni, con quei testi, a quell’orario di notte, è una domanda che non ci si deve fare ora. Cercate di avere le spalle alleggerite dai sensi di colpa, la mente libera, perché in questo momento ci dovete essere per i vostri figli, che hanno bisogno di voi anche se a parole vi dicono il contrario.

IL SECONDO CONSIGLIO: EVITARE DI DRAMMATIZZARE LA NORMALE REAZIONE AL TRAUMA

Per “normale reazione al trauma” si intende una o più delle seguenti difficoltà:

  • Isolamento, ritiro dalle normali attività, compresa la difficoltà di andare a scuola;
  • Stanchezza, poca energia nell’affrontare gli impegni quotidiani;
  • Ansia, agitazione, tendenza all’evitamento di situazioni particolari;
  • Immagini intrusive dell’evento traumatico;
  • Pianto;
  • Problemi di sonno, incubi;
  • Problemi alimentari;
  • Irritabilità e reazioni aggressive;
  • Difficoltà di concentrazione;
  • Mal di testa, di stomaco o altri problemi fisici che prima non c’erano;
  • Euforia eccessiva e inappropriata.

Queste reazioni, nel periodo a ridosso degli eventi, sono del tutto fisiologiche, vanno sicuramente monitorate con attenzione, ma senza aggiungere ansia all’ansia. La maggior parte di esse andranno incontro a remissione spontanea nelle settimane successive. Se questo non dovesse accadere e se i sintomi dovessero protrarsi per lungo tempo (ad es. per mesi) allora si è sempre in tempo per intervenire attraverso un aiuto di tipo professionale. In ogni caso, il ricordo dell’evento rimarrà e anche le emozioni di tristezza e dolore ad esso associato, ma nessuno dei sintomi sopra esposti è irreversibile e sviluppare una psicopatologia non è inevitabile. Quindi: sangue freddo, di fronte alle normali manifestazioni di malessere di chi ha visto morire un amico o ha temuto per la propria vita. Reagire drammatizzando, può portare il contesto familiare ad agire in modo scomposto e allarmato – invece di dare serenità e rassicurazione – paradossalmente peggiorando il quadro invece di alleviarlo.

Nelle primissime settimane è importante abbassare le aspettative e le richieste su un figlio, tollerare un pochino di irritabilità, abbassare le pretese scolastiche, soprattutto non pretendere che il ragazzo o la ragazza torni subito a stare bene come se non fosse successo niente. Rientrare nella normale routine quotidiana consente di gradualmente ricostruirsi un senso di controllo sulla propria vita e normalizzarla, ma bisogna anche accettare che è necessario un tempo per arrivare a questo. La pretesa assoluta che tutto torni come prima il più velocemente possibile rischia di far sentire un figlio non capito, inasprire le sue reazioni di rabbia o chiudersi ancora di più in se stesso, anche compiacendo un genitore mostrando una facciata da “tutto va bene”.

La “ricetta magica” non esiste e ognuno si confronta con un figlio diverso, con esigenze diverse, un suo vissuto e modalità proprie di affrontare le avversità. Ogni famiglia ha le risorse per fronteggiare le conseguenze di questo evento, basta tenere a mente le cose da evitare.

Evitare di passare un messaggio di fragilità – Dopo un evento traumatico, è possibile che venga profondamente intaccata e modificata la rappresentazione che una persona ha di se stessa, del mondo, della vita e del proprio futuro. È inevitabile, in questi casi, fare l’esperienza di vulnerabilità. Ma se di fronte a un pianto improvviso o un ripiegamento su se stesso, si passa alla persona che sta soffrendo il messaggio più o meno esplicito e preoccupato: “sei sensibile”, “sei troppo emotivo”, “sei fragile”, viene trasferita un’idea di vulnerabilità personale che il ragazzo o la ragazza potrebbe finire per fare proprio. Ma se io sono fragile o più sensibile degli altri, devo stare più attento degli altri e proverò ansia nell’affrontare altre sfide di vita rispetto alle quali mi sentirò inadeguato, inadatto, indifeso. Questa è l’anticamera di un disturbo d’ansia.

È molto più tutelante invece passare il messaggio che tutto il dolore, l’ansia, la confusione mentale, la sensazione di crollare sono normali e fisiologiche reazioni allo stress, a cui le persone reagiscono in modi diversi. Alcuni piangono, altri si tengono il dolore dentro, alcuni mostrano i propri stati d’animo, altri innalzano un muro, alcuni sfogano una grande rabbia, altri si paralizzano. Nessuno è più “forte” o più “fragile”. Tutti ci stanno male, ed è normale che sia così. E comunque è temporaneo.

Parallelamente, è bene trasmettere il senso di fiducia in se stessi e nella propria capacità di recupero. Il miglior antidoto contro i disturbi d’ansia è la profonda convinzione che, di fronte a questa difficoltà e alle difficoltà future, per quanto potremo starci male, sapremo tenere botta, mettendo a frutto le nostre capacità e risorse personali per venirne fuori.

IL TERZO CONSIGLIO: GARANTIRE AI RAGAZZI E RAGAZZE UNO SPAZIO PER PARLARE DELL’ACCADUTO E DI COME SI SENTONO

Potrebbe non essere sempre facile aprire un dialogo su quanto accaduto. Gli ostacoli potrebbero essere:

  • Il ragazzo o la ragazza prova ansia a dare voce alla sua esperienza, perché è un riportare alla mente le scene terribili a cui ha assistito. Quindi, come c’è da aspettarsi, tenderà a evitare certi discorsi;
  • I genitori potrebbero ritenere che più se ne parla, più il trauma resta in mente e quindi sarà difficile da “dimenticare”, per cui essi stessi evitano di parlarne;
  • I genitori potrebbero capire che è importante far parlare il figlio, ma sono spaventati da quello che ha da dire (capiamoci, quale genitore sarebbe a suo agio di fronte a questo?) e quest’ultimo potrebbe non voler pesare sulle persone che gli stanno intorno, non preoccuparle, fingendo che va tutto bene;
  • I genitori comprendono la necessità per il figlio di parlare e lo assillano di domande, come in un interrogatorio, ottenendo solo che si chiuda sempre di più.

Naturalmente, l’idea “meno se ne parla e prima se ne viene fuori”, è sbagliata. Al contrario raccontare, ri-raccontare più volte, dare voce alle proprie emozioni e trovare un contesto che accoglie senza giudizi e senza spaventarsi a propria volta, è la strada più dura ma anche più sicura per superare un trauma. Per i genitori e gli altri adulti di riferimento, la sfida è quella di riuscire a stare in presenza del dolore senza censurarlo (ad es, non dire: “Dài, non fare così”), senza cambiare discorso (ad es. non dire: “Non ci pensare, andiamo a fare shopping”), senza negare il problema (ad es. non dire: “Uno in gamba come te non può starci male”). Se non si trovano le parole, meglio restare in silenzio. La presenza anche silenziosa ma emotivamente partecipe è più di aiuto di quanto si creda. E non fa danni.

Senza forzare la discussione con domande insistenti, è utile attendere con pazienza che i ragazzi e le ragazze trovino il modo di aprirsi, seguire i discorsi che fanno, lasciando loro la possibilità di parlare delle proprie paure. E poi, offrire comprensione (ad es. “Capisco che ti sei spaventato. Mi sarei spaventato anch’io”, “È normale che ti senti confuso, è difficile credere a quello che è accaduto”, “Capisco che non ne vuoi parlare, anche se si vede che ci stai male. Quando ti senti di avere bisogno di sfogarti un po’, ci sarò”.) Può aiutare il creare occasioni di unione familiare, attività da fare insieme, più del solito, per aumentare la probabilità di comunicare.

Tenere a mente che non si comunica solo a parole. Il disagio si esprime anche attraverso comportamenti apparentemente strani o sbagliati. Ad esempio è facile che dietro un comportamento aggressivo possa esserci la paura di non essere più al sicuro o di perdere tutto. L’emozione espressa in modo più o meno esplicito va sempre riconosciuta e legittimata. Un genitore può semplicemente rispecchiarla, darle un nome.

Evitare di spaventare di più – Anche gli adulti potrebbero sentire il bisogno di essere a loro volta rassicurati che il proprio figlio non corra più un pericolo del genere. Si potrebbe essere tentati di pensare che spaventandolo per bene sui pericoli del mondo, riusciremo a tenerlo al sicuro. Potrebbero venir fuori affermazioni del tipo: “Hai visto che ti è successo? Così impari a darmi retta!” Insomma, potrebbe sembrare cosa buona usare quanto accaduto per rimetterlo “in riga”. Se è già una sfida educativa non da poco vedere i figli prendere la via di una crescente autonomia, accettare che una quota di rischio faccia parte della loro vita e che loro saranno nel mondo là fuori a cavarsela da soli, dopo la Lanterna azzurra, sarà ancora più difficile!

L’obiettivo è riuscire a parlare dell’accaduto senza far loro perdere fiducia nella vita e in quello che di buono riserva e riuscire a concedere la giusta autonomia senza trasmettere un’idea di un pericolo immane sempre presente e sempre in agguato. È necessario invece rassicurare, spiegare che anche se è accaduto, la probabilità che possa accadere di nuovo un evento simile tutto sommato è bassa e non c’è motivo di restare perennemente spaventati e allerta.

Evitare di moralizzare – La vita ha i suoi rischi. C’è sicuramente una parte di rischio controllabile attraverso comportamenti responsabili e scelte ragionevoli, e poi c’è la parte non controllabile, semplicemente dettata dal caso e connessa con l’essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Noi esseri umani abbiamo una paura terribile ad accettare il fatto che la nostra vita è precaria, è soggetta a rischi che non possono mai essere completamente azzerati e abbiamo un potere limitato nel porre sotto controllo i pericoli che ci circondano. Subdola è l’esigenza di cui si diceva, di auto-illudersi di avere un potere sugli eventi convincendoci che possiamo rendere il fato magnanimo con noi, semplicemente “facendo i bravi”. È una trappola, perché, oltre a essere un assunto falso, rischiamo di finire schiacciati da inutili sensi di colpa per gli eventi negativi, compresi quelli che a rigor di logica non sono per nulla conseguenza delle nostre scelte. Quando ci accade qualcosa di negativo, non ci domandiamo forse “perché proprio a me?”, “cos’ho fatto per meritarmi questo?”, come se il bene e il male che ci capita dovesse dipendere dalle nostre buone o cattive azioni.

Se si biasima la vittima per la tragedia che l’ha colpita (“te lo sei meritato”, “è questo quello che accade a chi ha perso i valori di una volta”, ecc.) non si fa altro che ostacolare il suo processo di recupero, lo si fa sentire inutilmente in colpa, meritevole del male ricevuto, si mina la sua autostima, cioè il bagaglio che dovrebbe permettergli di rimettersi in piedi e riprendere a camminare con le proprie gambe. Se un genitore è tentato di prendere questa strada, è per un intento protettivo, è chiaro, ma attenzione: trattandosi di adolescenti, questo messaggio potrebbe essere davvero deleterio.

Si deve fare i conti con la propria impotenza e le paure che ne scaturiscono? Bene. Molto meglio allora ricostruire il proprio senso di controllo coinvolgendosi in iniziative ed azioni di utilità sociale: volontariato, iniziative di sensibilizzazione a scuola, raccolta fondi per associazioni, andare a fare visita a chi rischia l’isolamento, ecc. In questo modo, oltre a rinforzare i legami all’interno di una comunità provata, si accresce la sensazione di avere un potere personale sul corso degli eventi, per quanto possibile e al di fuori di inutili auto-inganni. I genitori possono farlo e incoraggiare i propri ragazzi a farlo.

L’ULTIMO CONSIGLIO: ESSERE BENEVOLI VERSO SE STESSI COME GENITORI

Alcuni di voi genitori si stanno ripetendo senza sosta “ho sbagliato tutto”. Ve l’ho sentito dire spesso, in questi giorni. Il fatto stesso che un figlio ha rischiato la vita per una cosa che voi gli avete permesso di fare, basta a farvi sentire sbagliati e in colpa.

Fate un respiro, ritornate nel qui-e-ora, abbandonando l’elenco mentale di tutti gli errori educativi che pensate di aver fatto negli anni, e ripetete a voi stessi che siete gli unici genitori che vostro figlio avrà mai. Nessuno vi potrà mai sostituire. Vostro figlio ha voi e deve poter contare su di voi. Avete sempre fatto scelte pensando al meglio per lui/lei e così continuerete a fare. Siete genitori sufficientemente buoni.

Se proprio avete dubbi sulla vostra capacità di gestire la situazione in un momento difficile potete ricorrere al supporto di un professionista, ma ancora una volta questo non fa di voi degli incapaci.

Quanto sopra illustrato riguardo alle reazioni al trauma, potrebbe essere esteso anche a voi: potreste sperimentare ansia, agitazione, problemi di sonno, stanchezza e demotivazione, ecc. Vale per voi quanto detto per i vostri figli: sono reazioni normali che andranno scemando nel tempo. Prendetevi cura di voi stessi, invece di continuare a biasimarvi, ritagliatevi spazi di parola, per parlare dell’accaduto e di come vi sentite, con altri familiari o amici che sapete capaci di un ascolto non giudicante. Rientrate in una routine senza fretta, rispettando i vostri tempi. Ascoltatevi senza giudicarvi.

Non permettete a questo evento di demolire la fiducia in voi stessi, nelle risorse della vostra famiglia e dei vostri figli. Percorrete la strada, insieme a loro, che porta a riprendersi in mano la propria vita.

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La reazione psicologica ai disastri

La reazione psicologica ai disastri

Disastri sia naturali che non, portano con sé tutta una serie di conseguenze psicologiche anche in persone che non hanno vissuto in prima persona l’evento.

Il periodo successivo ad una catastrofe è sensibile dal punto di vista del peggioramento delle condizioni di salute mentale di una popolazione. Dopo il terremoto che ha distrutto Amatrice e zone limitrofe, è aumentato lo stato d’allerta in persone che vivono lontano da lì, e che hanno iniziato a sperimentare disturbi del sonno, agitazione al minimo rumore, oppure comportamenti disfunzionali, come il controllare ripetutamente e in modo ossessivo le scosse che si verificano giorno per giorno anche in altre parti del mondo (vi sono delle app che lo consentono). Il recente crollo del ponte Morandi a Genova potrebbe avere conseguenze simili, rispetto allo stato d’animo con cui si approccerà un cavalcavia d’ora in avanti. L’immagine del ponte crollato è anzi un’immagine piuttosto rappresentativa di come un percorso di vita programmato possa essere distrutto in modo inatteso e impensabile.

Assistere alle scene di devastazione da un telegiornale può essere sufficiente ad innescare una serie di pensieri d’ansia e di rimuginazioni negative in persone che vivono anche a centinaia di chilometri dalla zona colpita. Il carattere improvviso, imprevedibile e devastante nelle conseguenze di questi eventi porta con sé una generale sensazione di assenza di controllo sulla propria vita e senso di impotenza. Il pensiero ruota intorno all’imprevedibilità con cui chiunque potenzialmente può essere colpito, in qualunque luogo e in qualunque momento.

La ricerca evidenzia anche un nesso tra i processi associati all’empatia e lo sviluppo e il mantenimento di sintomi d’ansia: più si è capaci di mettersi nei panni degli altri e più ci si proietta in un tipo di esperienza che non si è vissuta in prima persona.

Naturalmente, vi è una grande variabilità tra individui. A rendere più “resistenti” a queste conseguenze vi sono degli importanti fattori:

  1. le capacità adattive della persona;
  2. l’idea radicata di saper fronteggiare eventi avversi e la fiducia nella propria capacità di resistere;
  3. soprattutto, il sostegno sociale, la possibilità di confrontarsi, poter dire come ci si sente a una persona capace di offrire supporto.

Le persone che possiedono di meno queste caratteristiche sono maggiormente a rischio di sviluppare disturbi d’ansia che potrebbero inficiare la qualità della vita e sono anche le persone che più beneficiano di un intervento psicologico, tanto più efficace quanto più è precoce dopo un evento che ha minato il senso di controllo che ognuno di noi ha rispetto alla propria vita.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico qualificato.

Link alle risorse dell’American Psychological Association sul tema

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Le conseguenze psicologiche di eventi traumatici

Le conseguenze psicologiche di eventi traumatici

Una minaccia alla vita o all’incolumità del corpo è spesso una condizione estrema in cui l’individuo può sperimentare impotenza e terrore.

Il trauma avviene quando l’azione è impossibile: né la resistenza né la fuga sono realizzabili e il sistema di difesa è sopraffatto. Questo può portare a cambiamenti durevoli e profondi negli stati di eccitazione fisiologica, nelle emozioni, nella cognizione e nella memoria.

Un evento ha maggiori probabilità di avere conseguenze traumatiche se:

  • Minaccia la sopravvivenza
  • Sopraggiunge in modo inaspettato
  • La persona si è sentita impreparata nel fronteggiarlo
  • Vi è stata una crudeltà deliberata da parte di qualcuno
  • E’ accaduto ripetutamente.

Il trauma, in particolare quando connesso con la crudeltà umana, viola l’autonomia della persona e la sua dignità, che si sente abbandonata da tutti e indegna di protezione, sfiduciata anche nei legami significativi. Da un lato, la paura che si possa ripetere l’evento traumatico spinge a ricercare protezione negli altri, dall’altro lato si può sperimentare terrore nel contatto con gli altri: paura sia a stare da soli che a stare con gli altri.

Ritornare a una vita serena è possibile contrastando l’isolamento, individuando strategie efficaci per rilassare le tensioni, prendendosi cura della propria salute anche con il sostegno di persone significative che siano capaci di ascolto empatico. Un aiuto professionale va però ricercato nei seguenti casi:

  • diventa sempre più difficile gestire la normale vita familiare, sociale e lavorativa
  • si sperimentano quotidianamente sensazioni intense di terrore o flashback dell’evento traumatico
  • per gestire le tensioni e stare meglio si inizia a ricorrere a droghe, alcol o altre forme di dipendenza
  • si sperimenta una forte difficoltà a creare o mantenere legami affettivi
  • per evitare situazioni che ricordano il trauma, la vita inizia ad essere pesantemente limitata
  • vi è una generale sensazione di assenza di controllo.
Un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale permetterà di affrontare le difficoltà connesse col trauma a livello dei pensieri, delle emozioni e dell’attivazione fisiologica.

Link alle risorse dell’American Psychological Association sul tema.

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Superare il trauma

Superare il trauma

L’esperienza di un evento traumatico può sconvolgere la vita di una persona, lasciandole un senso di vulnerabilità e di paura. Ma recuperare serenità e fiducia è possibile.

Si può definire trauma un evento percepito come estremamente minaccioso a cui la persona ha risposto con un livello di paura intenso, senso di impotenza e orrore.

Tipici eventi traumatici possono essere: esperienze di guerra, aggressioni fisiche o sessuali, assistere alla morte di qualcuno in un incidente, oppure nel corso di terremoti, alluvioni, incendi, ecc. Spesso ha a che fare col “vedere la morte in faccia”.

È importante sottolineare che il trauma è un fatto molto personale. Siamo noi a dare significato e peso a quello che ci succede, facendo sì che quello che è traumatico per qualcuno potrebbe essere una esperienza semplicemente negativa per qualcun altro. Questa variabilità ha che fare con il sistema di credenze e di valori di ciascuno e con le precedenti esperienze di vita. Vi è una variabilità anche nella capacità di recupero: alcune persone possono impiegare alcune settimane o mesi dopo l’incidente prima di tornare a condurre una vita soddisfacente anche con il sostegno di familiari e amici. Per altri invece il recupero non è così semplice e talvolta si può arrivare al Disturbo post-traumatico da stress.

Il Disturbo post-traumatico da stress origina dalla risposta fisiologica dell’organismo allo stress estremo, ma con una sintomatologia che si protrae nel tempo, anche quando la minaccia è cessata. Questo avviene perché quanto sperimentato ha la capacità di modificare la percezione di se stessi e del mondo. L’esperienza ribalta sia la percezione di un mondo bello e giusto, sia l’idea di se stessi, di essere forti, capaci e adeguati. A questo punto la persona vede ovunque il pericolo e sta costantemente in allerta, in guardia, sulla difensiva.

Questo può portare a difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, irritabilità, irrequietezza. Possono comparire pensieri intrusivi (immagini e ricordi dell’evento traumatico), incubi, flashback (rivivere l’evento come se stesse accadendo qui e ora). Infine vi possono essere comportamenti di evitamento di tutto ciò che può ricordare l’evento traumatico, allo scopo di limitare l’esperienza di ansia; di conseguenza si limita pesantemente la vita, ci si isola, si limitano attività precedentemente considerate piacevoli e si può andare verso la depressione.

La psicoterapia in questi casi può sostenere la rielaborazione dell’esperienza traumatica, rafforzare la capacità di far fronte a situazioni che spaventano e trasferire strategie di gestione dello stress.

Guarire in questi casi non significa dimenticare quanto accaduto e nemmeno avere la garanzia che non si proveranno più emozioni negative al ricordo dell’evento traumatico. Ma questo stress può diventare meno frequente e più gestibile, al punto da perdere il potere di controllare la vita di una persona. Guarire non significa nemmeno tornare esattamente come si era prima. Esperienze forti possono cambiare le persone in molti modi, non necessariamente negativi. Si può diventare più forti, più comprensivi, più equilibrati e aperti.

Un trauma non stabilisce un destino

La dott.ssa Grilli ha una esperienza pluriennale nella terapia in questo ambito, in particolare rispetto al Disturbo post traumatico sperimentato dalle vittime di aggressioni fisiche e sessuali o dai sopravvissuti a eventi catastrofici.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, un supporto psicologico qualificato può essere determinante.

Link alle risorse dell’American Psychological Association.

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