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La tragedia della Lanterna azzurra. Quattro consigli ai genitori dei ragazzi sopravvissuti

La tragedia della Lanterna azzurra. Quattro consigli ai genitori dei ragazzi sopravvissuti

La strage di ragazzi che si è consumata la notte del 7 dicembre a Corinaldo, è una tragedia capace di sconvolgere la vita delle persone direttamente interessate in primis, e di rimbalzo anche quella dell’intera comunità.

Sperando di essere d’aiuto alle famiglie che ne sono state toccate in modo più o meno diretto, vorrei portare la riflessione su alcuni aspetti che sul piano psicologico meritano attenzione e cura. Se non parlo alle famiglie dei ragazzi che non ce l’hanno fatta, è per la consapevolezza che un articolo di blog non può dare risposte o consolazione in questi casi. Questo articolo è molto breve per un argomento complesso e per forza di cose è necessario semplificare molto. Mi sono sentita di scriverlo a partire da domande e dubbi che mi sono stati rivolti nello sportello d’ascolto del Comune di Senigallia messo a disposizione delle vittime e dei loro familiari e in cui ho prestato servizio nei giorni successivi al dramma della Lanterna azzurra.

IL PRIMO CONSIGLIO: DISCONNETTERSI TEMPORANEAMENTE DAI SOCIAL E IGNORARE I MEDIA

Cari genitori dei ragazzi e ragazze che quella notte erano alla Lanterna azzurra, cercate, se potete, di non farvi confondere dai discorsi saccenti e vuoti che negli ultimi giorni si sono scatenati nei social e nei media, perché i vostri figli hanno bisogno di voi e della vostra lucidità. Disconnettetevi e salvaguardatevi.

Una delle reazioni più disfunzionali di una comunità dopo una tragedia è la veloce e irriflessiva ricerca di un capro espiatorio, qualcuno da incolpare additandolo e mettendolo alla gogna nei media, nei social, nei discorsi vari. Questo accade per un motivo preciso, che non ha a che fare con la cattiveria: tutti – ma proprio tutti – abbiamo paura di una casualità cieca che in qualunque momento ci può colpire in modo indiscriminato. Accusare i giovani che non hanno più i valori di una volta, piuttosto che genitori incapaci, piuttosto che cantanti con un linguaggio criticabile, ha l’unica funzione di tranquillizzare noi stessi rispetto alla possibilità che la stessa disgrazia possa capitare a noi o ai nostri cari. Si tratta di un meccanismo di difesa per cui la paura della morte viene gestita attraverso un illusorio quanto fragile senso di controllo sugli eventi: “A chi si comporta bene, non capitano queste cose. Io mi comporto bene, quindi…”

L’intera comunità va alla ricerca di un proprio modo di “sopravvivere” emotivamente a quanto accaduto. Le voci si moltiplicano, ognuno deve dire la sua, ci si arrabbia puntando il dito sui presunti responsabili. E si finisce, paradossalmente, per accanirsi sulle vittime, colpevoli di “essersela cercata”. Ora, è del tutto ovvio che delle responsabilità ci sono e andranno giustamente accertate, ma da chi ha il ruolo di farlo. Per il resto sono solo discorsi che nella migliore delle ipotesi sono vuoti, nebulosi, fuorvianti; nella peggiore delle ipotesi sono dannosi, tossici e di ostacolo alla guarigione dei vostri figli, oltre che vostra.

Non date peso ai giudizi sulle vostre scelte come educatori. Meglio: evitate proprio di entrare in contatto con certi discorsi. Liquidate velocemente chi sottolinea quanto fosse inopportuno lasciare partecipare i propri figli a quello spettacolo. Il problema quella notte non è stato un problema educativo, ma di gestione della sicurezza. Se fosse cosa buona o meno assecondare un figlio nella richiesta di partecipare a quella serata, con quel cantante, che canta quelle canzoni, con quei testi, a quell’orario di notte, è una domanda che non ci si deve fare ora. Cercate di avere le spalle alleggerite dai sensi di colpa, la mente libera, perché in questo momento ci dovete essere per i vostri figli, che hanno bisogno di voi anche se a parole vi dicono il contrario.

IL SECONDO CONSIGLIO: EVITARE DI DRAMMATIZZARE LA NORMALE REAZIONE AL TRAUMA

Per “normale reazione al trauma” si intende una o più delle seguenti difficoltà:

  • Isolamento, ritiro dalle normali attività, compresa la difficoltà di andare a scuola;
  • Stanchezza, poca energia nell’affrontare gli impegni quotidiani;
  • Ansia, agitazione, tendenza all’evitamento di situazioni particolari;
  • Immagini intrusive dell’evento traumatico;
  • Pianto;
  • Problemi di sonno, incubi;
  • Problemi alimentari;
  • Irritabilità e reazioni aggressive;
  • Difficoltà di concentrazione;
  • Mal di testa, di stomaco o altri problemi fisici che prima non c’erano;
  • Euforia eccessiva e inappropriata.

Queste reazioni, nel periodo a ridosso degli eventi, sono del tutto fisiologiche, vanno sicuramente monitorate con attenzione, ma senza aggiungere ansia all’ansia. La maggior parte di esse andranno incontro a remissione spontanea nelle settimane successive. Se questo non dovesse accadere e se i sintomi dovessero protrarsi per lungo tempo (ad es. per mesi) allora si è sempre in tempo per intervenire attraverso un aiuto di tipo professionale. In ogni caso, il ricordo dell’evento rimarrà e anche le emozioni di tristezza e dolore ad esso associato, ma nessuno dei sintomi sopra esposti è irreversibile e sviluppare una psicopatologia non è inevitabile. Quindi: sangue freddo, di fronte alle normali manifestazioni di malessere di chi ha visto morire un amico o ha temuto per la propria vita. Reagire drammatizzando, può portare il contesto familiare ad agire in modo scomposto e allarmato – invece di dare serenità e rassicurazione – paradossalmente peggiorando il quadro invece di alleviarlo.

Nelle primissime settimane è importante abbassare le aspettative e le richieste su un figlio, tollerare un pochino di irritabilità, abbassare le pretese scolastiche, soprattutto non pretendere che il ragazzo o la ragazza torni subito a stare bene come se non fosse successo niente. Rientrare nella normale routine quotidiana consente di gradualmente ricostruirsi un senso di controllo sulla propria vita e normalizzarla, ma bisogna anche accettare che è necessario un tempo per arrivare a questo. La pretesa assoluta che tutto torni come prima il più velocemente possibile rischia di far sentire un figlio non capito, inasprire le sue reazioni di rabbia o chiudersi ancora di più in se stesso, anche compiacendo un genitore mostrando una facciata da “tutto va bene”.

La “ricetta magica” non esiste e ognuno si confronta con un figlio diverso, con esigenze diverse, un suo vissuto e modalità proprie di affrontare le avversità. Ogni famiglia ha le risorse per fronteggiare le conseguenze di questo evento, basta tenere a mente le cose da evitare.

Evitare di passare un messaggio di fragilità – Dopo un evento traumatico, è possibile che venga profondamente intaccata e modificata la rappresentazione che una persona ha di se stessa, del mondo, della vita e del proprio futuro. È inevitabile, in questi casi, fare l’esperienza di vulnerabilità. Ma se di fronte a un pianto improvviso o un ripiegamento su se stesso, si passa alla persona che sta soffrendo il messaggio più o meno esplicito e preoccupato: “sei sensibile”, “sei troppo emotivo”, “sei fragile”, viene trasferita un’idea di vulnerabilità personale che il ragazzo o la ragazza potrebbe finire per fare proprio. Ma se io sono fragile o più sensibile degli altri, devo stare più attento degli altri e proverò ansia nell’affrontare altre sfide di vita rispetto alle quali mi sentirò inadeguato, inadatto, indifeso. Questa è l’anticamera di un disturbo d’ansia.

È molto più tutelante invece passare il messaggio che tutto il dolore, l’ansia, la confusione mentale, la sensazione di crollare sono normali e fisiologiche reazioni allo stress, a cui le persone reagiscono in modi diversi. Alcuni piangono, altri si tengono il dolore dentro, alcuni mostrano i propri stati d’animo, altri innalzano un muro, alcuni sfogano una grande rabbia, altri si paralizzano. Nessuno è più “forte” o più “fragile”. Tutti ci stanno male, ed è normale che sia così. E comunque è temporaneo.

Parallelamente, è bene trasmettere il senso di fiducia in se stessi e nella propria capacità di recupero. Il miglior antidoto contro i disturbi d’ansia è la profonda convinzione che, di fronte a questa difficoltà e alle difficoltà future, per quanto potremo starci male, sapremo tenere botta, mettendo a frutto le nostre capacità e risorse personali per venirne fuori.

IL TERZO CONSIGLIO: GARANTIRE AI RAGAZZI E RAGAZZE UNO SPAZIO PER PARLARE DELL’ACCADUTO E DI COME SI SENTONO

Potrebbe non essere sempre facile aprire un dialogo su quanto accaduto. Gli ostacoli potrebbero essere:

  • Il ragazzo o la ragazza prova ansia a dare voce alla sua esperienza, perché è un riportare alla mente le scene terribili a cui ha assistito. Quindi, come c’è da aspettarsi, tenderà a evitare certi discorsi;
  • I genitori potrebbero ritenere che più se ne parla, più il trauma resta in mente e quindi sarà difficile da “dimenticare”, per cui essi stessi evitano di parlarne;
  • I genitori potrebbero capire che è importante far parlare il figlio, ma sono spaventati da quello che ha da dire (capiamoci, quale genitore sarebbe a suo agio di fronte a questo?) e quest’ultimo potrebbe non voler pesare sulle persone che gli stanno intorno, non preoccuparle, fingendo che va tutto bene;
  • I genitori comprendono la necessità per il figlio di parlare e lo assillano di domande, come in un interrogatorio, ottenendo solo che si chiuda sempre di più.

Naturalmente, l’idea “meno se ne parla e prima se ne viene fuori”, è sbagliata. Al contrario raccontare, ri-raccontare più volte, dare voce alle proprie emozioni e trovare un contesto che accoglie senza giudizi e senza spaventarsi a propria volta, è la strada più dura ma anche più sicura per superare un trauma. Per i genitori e gli altri adulti di riferimento, la sfida è quella di riuscire a stare in presenza del dolore senza censurarlo (ad es, non dire: “Dài, non fare così”), senza cambiare discorso (ad es. non dire: “Non ci pensare, andiamo a fare shopping”), senza negare il problema (ad es. non dire: “Uno in gamba come te non può starci male”). Se non si trovano le parole, meglio restare in silenzio. La presenza anche silenziosa ma emotivamente partecipe è più di aiuto di quanto si creda. E non fa danni.

Senza forzare la discussione con domande insistenti, è utile attendere con pazienza che i ragazzi e le ragazze trovino il modo di aprirsi, seguire i discorsi che fanno, lasciando loro la possibilità di parlare delle proprie paure. E poi, offrire comprensione (ad es. “Capisco che ti sei spaventato. Mi sarei spaventato anch’io”, “È normale che ti senti confuso, è difficile credere a quello che è accaduto”, “Capisco che non ne vuoi parlare, anche se si vede che ci stai male. Quando ti senti di avere bisogno di sfogarti un po’, ci sarò”.) Può aiutare il creare occasioni di unione familiare, attività da fare insieme, più del solito, per aumentare la probabilità di comunicare.

Tenere a mente che non si comunica solo a parole. Il disagio si esprime anche attraverso comportamenti apparentemente strani o sbagliati. Ad esempio è facile che dietro un comportamento aggressivo possa esserci la paura di non essere più al sicuro o di perdere tutto. L’emozione espressa in modo più o meno esplicito va sempre riconosciuta e legittimata. Un genitore può semplicemente rispecchiarla, darle un nome.

Evitare di spaventare di più – Anche gli adulti potrebbero sentire il bisogno di essere a loro volta rassicurati che il proprio figlio non corra più un pericolo del genere. Si potrebbe essere tentati di pensare che spaventandolo per bene sui pericoli del mondo, riusciremo a tenerlo al sicuro. Potrebbero venir fuori affermazioni del tipo: “Hai visto che ti è successo? Così impari a darmi retta!” Insomma, potrebbe sembrare cosa buona usare quanto accaduto per rimetterlo “in riga”. Se è già una sfida educativa non da poco vedere i figli prendere la via di una crescente autonomia, accettare che una quota di rischio faccia parte della loro vita e che loro saranno nel mondo là fuori a cavarsela da soli, dopo la Lanterna azzurra, sarà ancora più difficile!

L’obiettivo è riuscire a parlare dell’accaduto senza far loro perdere fiducia nella vita e in quello che di buono riserva e riuscire a concedere la giusta autonomia senza trasmettere un’idea di un pericolo immane sempre presente e sempre in agguato. È necessario invece rassicurare, spiegare che anche se è accaduto, la probabilità che possa accadere di nuovo un evento simile tutto sommato è bassa e non c’è motivo di restare perennemente spaventati e allerta.

Evitare di moralizzare – La vita ha i suoi rischi. C’è sicuramente una parte di rischio controllabile attraverso comportamenti responsabili e scelte ragionevoli, e poi c’è la parte non controllabile, semplicemente dettata dal caso e connessa con l’essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Noi esseri umani abbiamo una paura terribile ad accettare il fatto che la nostra vita è precaria, è soggetta a rischi che non possono mai essere completamente azzerati e abbiamo un potere limitato nel porre sotto controllo i pericoli che ci circondano. Subdola è l’esigenza di cui si diceva, di auto-illudersi di avere un potere sugli eventi convincendoci che possiamo rendere il fato magnanimo con noi, semplicemente “facendo i bravi”. È una trappola, perché, oltre a essere un assunto falso, rischiamo di finire schiacciati da inutili sensi di colpa per gli eventi negativi, compresi quelli che a rigor di logica non sono per nulla conseguenza delle nostre scelte. Quando ci accade qualcosa di negativo, non ci domandiamo forse “perché proprio a me?”, “cos’ho fatto per meritarmi questo?”, come se il bene e il male che ci capita dovesse dipendere dalle nostre buone o cattive azioni.

Se si biasima la vittima per la tragedia che l’ha colpita (“te lo sei meritato”, “è questo quello che accade a chi ha perso i valori di una volta”, ecc.) non si fa altro che ostacolare il suo processo di recupero, lo si fa sentire inutilmente in colpa, meritevole del male ricevuto, si mina la sua autostima, cioè il bagaglio che dovrebbe permettergli di rimettersi in piedi e riprendere a camminare con le proprie gambe. Se un genitore è tentato di prendere questa strada, è per un intento protettivo, è chiaro, ma attenzione: trattandosi di adolescenti, questo messaggio potrebbe essere davvero deleterio.

Si deve fare i conti con la propria impotenza e le paure che ne scaturiscono? Bene. Molto meglio allora ricostruire il proprio senso di controllo coinvolgendosi in iniziative ed azioni di utilità sociale: volontariato, iniziative di sensibilizzazione a scuola, raccolta fondi per associazioni, andare a fare visita a chi rischia l’isolamento, ecc. In questo modo, oltre a rinforzare i legami all’interno di una comunità provata, si accresce la sensazione di avere un potere personale sul corso degli eventi, per quanto possibile e al di fuori di inutili auto-inganni. I genitori possono farlo e incoraggiare i propri ragazzi a farlo.

L’ULTIMO CONSIGLIO: ESSERE BENEVOLI VERSO SE STESSI COME GENITORI

Alcuni di voi genitori si stanno ripetendo senza sosta “ho sbagliato tutto”. Ve l’ho sentito dire spesso, in questi giorni. Il fatto stesso che un figlio ha rischiato la vita per una cosa che voi gli avete permesso di fare, basta a farvi sentire sbagliati e in colpa.

Fate un respiro, ritornate nel qui-e-ora, abbandonando l’elenco mentale di tutti gli errori educativi che pensate di aver fatto negli anni, e ripetete a voi stessi che siete gli unici genitori che vostro figlio avrà mai. Nessuno vi potrà mai sostituire. Vostro figlio ha voi e deve poter contare su di voi. Avete sempre fatto scelte pensando al meglio per lui/lei e così continuerete a fare. Siete genitori sufficientemente buoni.

Se proprio avete dubbi sulla vostra capacità di gestire la situazione in un momento difficile potete ricorrere al supporto di un professionista, ma ancora una volta questo non fa di voi degli incapaci.

Quanto sopra illustrato riguardo alle reazioni al trauma, potrebbe essere esteso anche a voi: potreste sperimentare ansia, agitazione, problemi di sonno, stanchezza e demotivazione, ecc. Vale per voi quanto detto per i vostri figli: sono reazioni normali che andranno scemando nel tempo. Prendetevi cura di voi stessi, invece di continuare a biasimarvi, ritagliatevi spazi di parola, per parlare dell’accaduto e di come vi sentite, con altri familiari o amici che sapete capaci di un ascolto non giudicante. Rientrate in una routine senza fretta, rispettando i vostri tempi. Ascoltatevi senza giudicarvi.

Non permettete a questo evento di demolire la fiducia in voi stessi, nelle risorse della vostra famiglia e dei vostri figli. Percorrete la strada, insieme a loro, che porta a riprendersi in mano la propria vita.

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L’abuso sessuale in psicoterapia

L’abuso sessuale in psicoterapia

Ogni relazione di potere, potenzialmente, può implicare una qualche forma di abuso da parte di chi è nella posizione dominante. Il rapporto psicoterapeutico non fa eccezione. Per sua natura è un rapporto basato sulla fiducia. E’ asimmetrico e non paritario: uno dei due si affida all’altro per affrontare e risolvere un problema di natura personale. Le confidenze anche molto intime sono unidirezionali (il terapeuta non entra nei dettagli della propria vita) e si suppone vengano trattate dal professionista con competenza e rispetto.

Uno dei modi in cui il rapporto può uscire da determinati confini di correttezza e non rispondere più alle regole del codice deontologico, è quando prende le sembianze di una relazione sessuale tra terapeuta e paziente.

I codici deontologici delle professioni sanitarie vietano sempre i comportamenti sessuali con i pazienti, fin dal giuramento di Ippocrate. Così recita l’art. 28 del Codice deontologico degli psicologi italiani:

“[…] Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. […]”

Nessuno psicoterapeuta serio e preparato chiederebbe mai un contatto fisico di natura sessuale (toccamenti, baci, abbracci sensuali) e nemmeno frequentazioni al di fuori delle sedute (appuntamenti galanti, telefonate intime, ecc.). Tuttavia sappiamo che talvolta questo può accadere, con gravi conseguenze per la salute psicologica dei pazienti.

Negli anni ’90 iniziarono studi negli Stati Uniti volti a evidenziare il fenomeno e venne appurato che il 10% dei professionisti interessati dalla ricerca avevano avuto un qualche tipo di coinvolgimento sessuale con pazienti. Perlopiù si trattava di psicoterapeuti uomini con pazienti donne. Non sorprende, perché come già detto, qualunque tipo di rapporto di potere può avere al proprio interno questo tipo di deviazione, in quanto con grande facilità chi è nella posizione di forza grazie alla sua autorevolezza e presunta competenza può approfittare del proprio status per influenzare pensieri e comportamenti e ottenere in modo illegittimo favori sessuali senza nemmeno l’uso della forza fisica.

La relazione psicoterapeutica può in questi casi sfociare in una vera e propria condizione di dipendenza, in cui la paziente è succube del proprio terapeuta, il quale può utilizzare in modo manipolatorio le tecniche di cui dispone per soggiogare, fino alla commissione di veri e propri reati di abuso. Può motivare determinate richieste illegittime presentandole come il risultato di ricerche scientifiche o delle più recenti teorie, oppure come una disinibizione liberatoria, una forma di rilassamento, un lasciarsi andare benefico, un modo per sperimentare relazioni mature come la paziente non ha potuto sperimentare nella sua vita, ecc.

La paziente vittima di questi abusi può sentirsi confusa, in conflitto tra il desiderio di risolvere i propri problemi affidandosi ciecamente al professionista e le proprie sensazioni di disagio, di disgusto o di violazione che avverte.

Questo tipo di interazione non è etico, è illegale, passibile di denuncia penale e motivo di radiazione dall’albo professionale.

Si traduce sempre in un danno economico perché la paziente si trova a dover pagare delle sedute dove non si affrontano i problemi per i quali si è rivolta al professionista, ma soprattutto in pesanti danni psicologici, risultato delle manipolazioni psicologiche e degli abusi sessuali. Come tutti i carnefici, anche il professionista che fuoriesce dai confini del rapporto terapeutico anteponendo i propri desideri sessuali agli obiettivi della psicoterapia, fa ampio ricorso all’inganno, all’insinuazione di sensi di colpa, facendo crescere quel senso di inadeguatezza e di vergogna che gli garantisce il silenzio della sua vittima. In questo modo, qualunque sia la problematica psicologica per la quale la paziente ha deciso di intraprendere un percorso personale, questa non può che peggiorare a fronte di un indebolimento dell’autostima e del senso di controllo sulla propria vita. Inoltre, anche una volta fuori da questa trappola, la vittima potrebbe non riuscire più a risollevarsi e non trovare il coraggio di intraprendere un’altra terapia che l’aiuterebbe, avendo perso fiducia nella psicoterapia in quanto tale.

Intraprendere la psicoterapia giusta scaturisce dall’attenzione e dalla consapevolezza dei propri diritti che un paziente ha nel momento della scelta. Ogni paziente ha il diritto di sentirsi a proprio agio e non vedere violati i propri confini da parte di chi è tenuto all’estrema correttezza proprio in ragione della posizione di vantaggio e di autorevolezza che ricopre.

Se si desidera segnalare al competente Ordine professionale una violazione del codice deontologico da parte di uno psicologo o psicoterapeuta della Regione Marche, basta compilare il form messo a disposizione dall’Ordine. Gli altri Ordini regionali hanno probabilmente modalità simili di segnalazione, basta fare una ricerca nel web. Naturalmente è possibile denunciare queste forme di abuso anche all’Autorità giudiziaria.

Bibliografia:

Singer M.T., Lalich J. (1998) – Psicoterapie “folli”. Conoscerle e difendersi. Ed. Erickson

Codice deontologico degli psicologi italiani

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo,  può essere d’aiuto un supporto emotivo specialistico.

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La reazione psicologica ai disastri

La reazione psicologica ai disastri

Disastri sia naturali che non, portano con sé tutta una serie di conseguenze psicologiche anche in persone che non hanno vissuto in prima persona l’evento.

Il periodo successivo ad una catastrofe è sensibile dal punto di vista del peggioramento delle condizioni di salute mentale di una popolazione. Dopo il terremoto che ha distrutto Amatrice e zone limitrofe, è aumentato lo stato d’allerta in persone che vivono lontano da lì, e che hanno iniziato a sperimentare disturbi del sonno, agitazione al minimo rumore, oppure comportamenti disfunzionali, come il controllare ripetutamente e in modo ossessivo le scosse che si verificano giorno per giorno anche in altre parti del mondo (vi sono delle app che lo consentono). Il recente crollo del ponte Morandi a Genova potrebbe avere conseguenze simili, rispetto allo stato d’animo con cui si approccerà un cavalcavia d’ora in avanti. L’immagine del ponte crollato è anzi un’immagine piuttosto rappresentativa di come un percorso di vita programmato possa essere distrutto in modo inatteso e impensabile.

Assistere alle scene di devastazione da un telegiornale può essere sufficiente ad innescare una serie di pensieri d’ansia e di rimuginazioni negative in persone che vivono anche a centinaia di chilometri dalla zona colpita. Il carattere improvviso, imprevedibile e devastante nelle conseguenze di questi eventi porta con sé una generale sensazione di assenza di controllo sulla propria vita e senso di impotenza. Il pensiero ruota intorno all’imprevedibilità con cui chiunque potenzialmente può essere colpito, in qualunque luogo e in qualunque momento.

La ricerca evidenzia anche un nesso tra i processi associati all’empatia e lo sviluppo e il mantenimento di sintomi d’ansia: più si è capaci di mettersi nei panni degli altri e più ci si proietta in un tipo di esperienza che non si è vissuta in prima persona.

Naturalmente, vi è una grande variabilità tra individui. A rendere più “resistenti” a queste conseguenze vi sono degli importanti fattori:

  1. le capacità adattive della persona;
  2. l’idea radicata di saper fronteggiare eventi avversi e la fiducia nella propria capacità di resistere;
  3. soprattutto, il sostegno sociale, la possibilità di confrontarsi, poter dire come ci si sente a una persona capace di offrire supporto.

Le persone che possiedono di meno queste caratteristiche sono maggiormente a rischio di sviluppare disturbi d’ansia che potrebbero inficiare la qualità della vita e sono anche le persone che più beneficiano di un intervento psicologico, tanto più efficace quanto più è precoce dopo un evento che ha minato il senso di controllo che ognuno di noi ha rispetto alla propria vita.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico qualificato.

Link alle risorse dell’American Psychological Association sul tema

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Le conseguenze psicologiche di eventi traumatici

Le conseguenze psicologiche di eventi traumatici

Una minaccia alla vita o all’incolumità del corpo è spesso una condizione estrema in cui l’individuo può sperimentare impotenza e terrore.

Il trauma avviene quando l’azione è impossibile: né la resistenza né la fuga sono realizzabili e il sistema di difesa è sopraffatto. Questo può portare a cambiamenti durevoli e profondi negli stati di eccitazione fisiologica, nelle emozioni, nella cognizione e nella memoria.

Un evento ha maggiori probabilità di avere conseguenze traumatiche se:

  • Minaccia la sopravvivenza
  • Sopraggiunge in modo inaspettato
  • La persona si è sentita impreparata nel fronteggiarlo
  • Vi è stata una crudeltà deliberata da parte di qualcuno
  • E’ accaduto ripetutamente.

Il trauma, in particolare quando connesso con la crudeltà umana, viola l’autonomia della persona e la sua dignità, che si sente abbandonata da tutti e indegna di protezione, sfiduciata anche nei legami significativi. Da un lato, la paura che si possa ripetere l’evento traumatico spinge a ricercare protezione negli altri, dall’altro lato si può sperimentare terrore nel contatto con gli altri: paura sia a stare da soli che a stare con gli altri.

Ritornare a una vita serena è possibile contrastando l’isolamento, individuando strategie efficaci per rilassare le tensioni, prendendosi cura della propria salute anche con il sostegno di persone significative che siano capaci di ascolto empatico. Un aiuto professionale va però ricercato nei seguenti casi:

  • diventa sempre più difficile gestire la normale vita familiare, sociale e lavorativa
  • si sperimentano quotidianamente sensazioni intense di terrore o flashback dell’evento traumatico
  • per gestire le tensioni e stare meglio si inizia a ricorrere a droghe, alcol o altre forme di dipendenza
  • si sperimenta una forte difficoltà a creare o mantenere legami affettivi
  • per evitare situazioni che ricordano il trauma, la vita inizia ad essere pesantemente limitata
  • vi è una generale sensazione di assenza di controllo.
Un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale permetterà di affrontare le difficoltà connesse col trauma a livello dei pensieri, delle emozioni e dell’attivazione fisiologica.

Link alle risorse dell’American Psychological Association sul tema.

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