Skip to main content

Autore: Elena Grilli

fempower

FEMPOWER: Una esperienza di gruppo per donne vittime di violenza nelle relazioni sentimentali

Le donne che hanno subito maltrattamenti da parte di un partner o ex partner riportano spesso conseguenze drammatiche, anche sul piano psicologico, causate da un prolungato stato di soggiogamento, da ripetute violenze e talvolta vere e proprie torture sistematiche. FEMPOWER è il resoconto di una esperienza di gruppo di donne, che ha avuto luogo presso il centro antiviolenza “Donne e Giustizia” di Ancona. Incontro dopo incontro, le tematiche sviscerate con la conduzione di una psicologa del centro, sono state:

(1) conoscere le dinamiche della violenza e sapersene difendere;

(2) gestire le ansie e le paure;

(3) difendere i propri diritti e affermare se stesse.

Il libro è volutamente poco teorico e molto pragmaticamente ancorato all’esperienza delle donne e ai loro discorsi, nel loro percorso di graduale conquista della propria sicurezza, autonomia e libertà. Gli spunti che hanno guidato le discussioni di gruppo sono fedelmente riportati, per permettere anche in altri contesti una riproposizione altrettanto proficua e ricca di consapevolezze emergenti.

ACQUISTA IL LIBRO IN FORMATO KINDLE

Continua a leggere

L’autostima è un percorso

L’autostima è un percorso

Spesso le azioni che facciamo pensando di aumentare la nostra autostima sono proprio quelle che la distruggono.

L’errore di base è quello di pensare che essere determinati, capaci, spontanei o socialmente competenti sia un “carattere” con cui siamo nati. Già pensare questo ci taglia le gambe, perché non siamo nell’ottica di poter agire nella direzione del cambiamento e dell’incremento dell’autostima. Di fronte alle difficoltà ci sentiamo così costituzionalmente inadeguati, inferiori, inadatti.

La prima strategia disfuzionale che potremmo mettere in atto per cercare di migliorare la situazione è arrendersi a quella che sembra essere un’evidenza, ed evitare tutte le situazioni nelle quali ci potremmo sentire a disagio. In questo modo non ci esponiamo, non rischiamo e nemmeno cresciamo. Osservando il nostro stesso comportamento giungiamo a delle conclusioni deleterie: “sono un codardo”, “sono pauroso”, “sono incapace”, “sono fragile”, “sono debole”. Autostima? Sotto i piedi. E tanto più ci impegniamo a restare nella nostra zona di comfort e tanto più forte diventerà questa certezza.

Talvolta si decide di reagire a questo stato di cose, ma in modi che ulteriormente indeboliscono la nostra autostima. Quello più tipico? Porsi un obiettivo molto elevato, sfidando le proprie paure più grandi e dire a se stessi: “se riuscissi a raggiungere quell’obiettivo, allora potrei dimostrare che valgo.” E’ una modalità di pensiero del tipo tutto/niente: “o riesco a raggiungere immediatamente la vetta (e allora vuol dire che sono una persona di valore), oppure significa che non valgo nulla.” Siccome l’obiettivo che ci si è posti è eccessivamente alto e non raggiungibile subito, ecco che ci esponiamo ad una probabilità di fallimento molto alta. E alla fine ne dovremo concludere che sì, effettivamente “non sono all’altezza, sono un totale incapace, un fallimento.” Ecco che la strategia che nelle nostre intenzioni ci doveva aumentare l’autostima, di fatto ci restituisce, rinforzato, un pensiero negativo e squalificato di noi stessi.

La buona notizia è che, se da un lato alcune strategie disfuzionali possono peggiorare la nostra autostima, ve ne sono altre capaci di migliorarla sensibilmente. Ma come si può uscire dalla propria zona di comfort senza che quello che facciamo ci torni indietro come un boomerang?

Oltre il confine della zona di comfort esiste la cosiddetta “zona di apprendimento“, un’area all’interno della quale possiamo sperimentare senza correre grossi rischi di fallimento, ottenere successi, crescere, diventare via via più competenti e sicuri di noi stessi. L’autostima è un percorso, nel quale possiamo compiere passo passo progressi nella direzione di allargare la nostra comfort zone.

Un percorso di psicoterapia comportamentale si basa essenzialmente su una serie di tecniche la cui efficacia è sperimentata, per esporsi alla cosiddetta “zona di apprendimento” sentendosi efficaci e rinforzando così l’autostima. L’approccio comportamentale fornisce strumenti concreti che rendono le persone sempre più abili nel gestire situazioni fino a quel momento temute ed evitate, di difficoltà via via crescente, fino ad arrivare all’obiettivo inizialmente percepito come irraggiungibile. Se non è affidata all’improvvisazione, ma a un piano terapeutico strutturato, la probabilità di successo è decisamente maggiore.

Per avere una consulenza su un percorso di incremento dell’autostima, puoi contattare la dott.ssa Grilli esperta in tecniche di tipo comportamentale.

Continua a leggere

Catastrofi e violenza di genere

Catastrofi e violenza di genere

17-19 maggio 2019: formazione ARES (Associazione Regionale di Emergenza Socio-sanitaria) “Un’ora dopo…one week later – Interventi integrati in medicina delle catastrofi.”

In questo contesto ho potuto gestire un laboratorio rivolto ai medici, infermieri e psicologi dell’emergenza su “Catastrofi e violenza di genere”.

Diversi studi, infatti, suggeriscono che nell’immediatezza di una catastrofe (terremoti, inondazioni, uragani, ecc.) e nelle fasi successive, il tasso di violenza sulle donne e sui bambini tende ad aumentare in termini di frequenza e gravità. La violenza nelle catastrofi è stata poco indagata, tuttavia alcuni studi sistematici sull’argomento mostrano come dopo un disastro tendono ad incrementare la violenza domestica, la violenza sessuale e l’abuso sui minori.

Quando una donna è già vittima di violenza da parte di un partner, è probabile che sperimenti una escalation in termini di frequenza e gravità, subito dopo una catastrofe. La motivazione centrale di ogni forma di violenza sulle donne è il bisogno di potere e controllo del maltrattante. La percezione di controllo naturalmente vacilla in concomitanza con il disastro; di qui l’esigenza di alzare il tiro e ripristinare il controllo attraverso l’unica modalità che conosce: sottomettere, umiliare, schiacciare la volontà dell’altra.

Nelle fasi successive a un disastro, le donne e i bambini esposti a queste forme di violenza vanno più facilmente incontro a un disturbo post-traumatico da stress o altri disturbi d’ansia o depressivi, in quanto  vengono combinati gli effetti di più eventi traumatici.

La situazione delle vittime è particolarmente critica per le donne, in quanto devono fronteggiare l’esacerbazione di comportamenti violenti ai loro danni, nelle già difficili condizioni di sopravvissute ad un disastro:

  • viene meno la loro rete informale di sostegno sociale, aumenta l’isolamento e l’esposizione al controllo del proprio carnefice;
  • la rete formale di supporto e protezione per le donne vittime di violenza collassa. Nella fase dell’emergenza disastro, può essere più difficile ottenere aiuto da forze dell’ordine e servizi locali, a loro volta surclassati e impegnati a fronteggiare l’emergenza;
  • la perdita di beni e risorse stressa il conflitto familiare e riduce le risorse a disposizione della donna per poter interrompere la relazione e mettersi in sicurezza con le proprie forze;
  • Inoltre, la precarietà delle condizioni di vita rende le donne più vulnerabili ad aggressioni di estranei e a stupri – la motivazione di questo fenomeno risiede sempre nel bisogno di potere e controllo.

Il laboratorio è stata una vera e propria esercitazione volta a incrementare la capacità di riconoscere i campanelli di allarme di una relazione maltrattante e fornire spunti per gestire il caso in un contesto emergenziale come quello di un ospedale da campo.

Grazie ad ARES per aver inserito all’interno del proprio programma formativo anche questo laboratorio, dimostrando attenzione alle esigenze delle donne anche in situazioni in cui normalmente tutti gli sforzi sono concentrati a fronteggiare un’emergenza.


Continua a leggere

Uomini maltrattanti e come non cascarci di nuovo

Uomini maltrattanti e come non cascarci di nuovo

Il 18 gennaio 2019 si è tenuto  il convegno dal titolo “Ciao maschio. La rappresentazione del maschile nella cultura della violenza.”

All’evento, organizzato presso la Regione Marche dalla cooperativa Polo 9, ho partecipato rappresentando il centro antiviolenza di Ancona. Dopo che sono state discusse le radici culturali del patriarcato e della rappresentazione del maschile che sottostà alla cultura della violenza sulle donne, sono stati presentati diversi servizi che offrono un percorso di consapevolezza e di responsabilizzazione per uomini che hanno agito violenza nelle relazioni di intimità, in particolare il punto V.O.C.E. che in Ancona ha istituito lo sportello di ascolto per maltrattanti. Come centro antiviolenza, ho avuto il ruolo di riportare l’attenzione sul vissuto delle donne, i soggetti che pagano il prezzo più alto di una mascolinità tossica, in termini di perdita di libertà, autonomia e sicurezza personale.

Ho così potuto portare la mia esperienza di affiancamento delle donne che desiderano liberarsi dalla violenza e sottolineato come anche una donna molto determinata nella sua decisione di lasciare un uomo maltrattante, possa tornare sui propri passi quando lui si mostra pentito e sofferente e dichiara di voler intraprendere un percorso di cambiamento.

Ma come facciamo a sapere se le sue dichiarazioni di buona volontà sono autentiche oppure non sono altro che una manipolazione, una tattica per convincere la donna a tornare sui propri passi e così riprendere potere su di lei?

La decisione di lasciare un uomo, benché violento, è spesso tormentata, difficile, dolorosa e carica di dubbi, soprattutto se la donna non ha una completa autonomia economica e si hanno magari dei figli insieme.

“Lasciarlo o rimanere?”

“Denunciare o no?”

“Le ho davvero provate tutte o c’è ancora qualcosa che posso fare per farlo cambiare?”

“E quanti tentativi devo fare prima di darmi per vinta e andare per la mia strada?”

La scelta di interrompere la relazione è ostacolata così da una serie di auto-accuse del tipo: “Se me ne vado sarò colpevole di aver sfasciato la famiglia, è una scelta egoistica, farò soffrire i miei figli togliendogli il padre, avrò dimostrato di essere un’incapace e un fallimento dome moglie e come madre”. D’altra parte tutti questi pensieri sono ampiamente rinforzati dal maltrattante, che non manca occasione per esplicitare e dare voce a queste accuse.

Ovviamente, se si aggiunge la dichiarazione di aver compreso i propri errori, di aver già fissato un appuntamento da uno psicologo, di voler cambiare seriamente stavolta, ecco che lei può essere tentata di offrire un’altra opportunità, per il bene della famiglia e dei figli, oppure semplicemente perché vuole credere alle promesse di lui.

“Che faccio, non gliela do una chance, proprio adesso che lui sembrerebbe che abbia capito?”

“Sono così cattiva ed egoista da chiudergli la porta in faccia, proprio quando fa lo sforzo di cambiare?”

“Ho sopportato per tanti anni e proprio ora che forse ci siamo cosa faccio, mollo?”

Naturalmente, qualunque essere umano ha la capacità di cambiare e crescere, compresi gli uomini che hanno agito violenza. I dati forniti dai colleghi che operano con i maltrattanti, tuttavia, non sono incoraggianti: pochissimi uomini violenti si rivolgono a questi servizi e ancora meno completano il percorso di consapevolezza che essi offrono. La statistica è impietosa: se un uomo violento dice che è cambiato, è più probabile che sia un inganno, piuttosto che la verità. Non solo: ad ogni ritorno tra le braccia di un uomo violento, ci si espone inevitabilmente ad un rischio di nuove e più gravi violenze. Si tratta quindi di un momento delicato e potenzialmente pericoloso.

Ma da quali elementi si può capire se le parole di lui corrispondono ad una vera spinta a cambiare le proprie modalità relazionali, nella direzione del rispetto? Ecco delle frasi tipiche, che le donne vittime di violenza si sentono dire dai propri maltrattanti per convincerle a tornare da loro. Analizziamole insieme:

“Sono già andato due volte dalla psicologa, come vedi io adesso sono cambiato, quasi non mi riconoscerai, ho capito quanto ti amo e quanto ho bisogno di te per vivere”.

Un percorso di crescita personale di sole due sedute è piuttosto miracoloso. Mettere in discussione fino alle radici i propri presupposti che giustificano comportamenti violenti, di umiliazione, fino alle torture personali gravi, non si fa con un impegno così esiguo. In secondo luogo, “ho bisogno di te per vivere” rivela un attaccamento morboso che è un segnale d’allarme: è proprio l’impossibilità di tollerare sul piano affettivo di perdere la persona amata vista come un oggetto di possesso, a motivare le persecuzioni e la limitazione della libertà della donna.

“Torna a casa, ti prego, faccio tutto quello che mi chiedi, lo giuro, sto troppo male senza di te, sii buona, così mi fai soffrire.”

Lui dà a intendere che cederà il suo potere in favore di lei, facendo tutto quello che lei desidera. Solo fermandosi alla superficie questo può essere rassicurante: lui non sembra infatti possedere l’idea di un rapporto veramente alla pari, fatto di scambio e mediazioni. O mi prendo tutto il potere e ti schiaccio, oppure graziosamente lo cedo tutto a te. In ogni caso, lui non perde occasione per farla sentire in colpa, attribuendole la responsabilità della sua sofferenza. La colpevolizzazione è da sempre una delle armi preferite degli uomini violenti.

“Lo so che ho sbagliato ad alzare le mani su di te, adesso l’ho capito, e anche a dirti tutte quelle brutte cose. Mi faccio schifo se penso a quello che ti ho fatto. Se tu magari riesci ad essere più comprensiva con me, io di sicuro ti mostrerò che posso essere una brava persona.”

Lui apparentemente riconosce di aver sbagliato. Il problema è sempre la sottile manipolazione attraverso la quale suggerisce che un po’ dipende anche da quanto lei riesce a essere “comprensiva”. E’ una inaccettabile condivisione delle responsabilità. Finché lui non si assume la totale responsabilità della violenza che fa, stiamo perdendo tempo.

“Da quando te ne sei andata, ho capito tutto, ho capito che ho sbagliato tante cose. Ma adesso gli errori che ho fatto li ho capiti, è stata tutta colpa mia, ma ora ti prego dammi un’altra opportunità.”

Non ci caschiamo: lui sembra volersi accollare tutte le responsabilità, ma in modo troppo vago e sfuggente. Se si è veramente consapevoli del problema, si deve essere capaci di nominarlo. Il problema della violenza è il fatto di non riuscire ad accettare una partner come una propria pari, con la sua libertà e i suoi diritti. Il problema della violenza è il bisogno di potere e di controllo su di una donna per potersi sentire un “vero uomo” (qualunque cosa voglia dire). Se lui non riesce a riconoscerlo esplicitamente, si tratta di parole vuote, dietro le quali non vi è alcuna consapevolezza.

E infine, attenzione: anche quando un uomo che ha agito violenza riesce a prendere consapevolezza del problema e ad assumersene la responsabilità, questo è comunque l’inizio di un processo di cambiamento, non la fine. E la strada è lunga.

Continua a leggere

La tragedia della Lanterna azzurra. Quattro consigli ai genitori dei ragazzi sopravvissuti

La tragedia della Lanterna azzurra. Quattro consigli ai genitori dei ragazzi sopravvissuti

La strage di ragazzi che si è consumata la notte del 7 dicembre a Corinaldo, è una tragedia capace di sconvolgere la vita delle persone direttamente interessate in primis, e di rimbalzo anche quella dell’intera comunità.

Sperando di essere d’aiuto alle famiglie che ne sono state toccate in modo più o meno diretto, vorrei portare la riflessione su alcuni aspetti che sul piano psicologico meritano attenzione e cura. Se non parlo alle famiglie dei ragazzi che non ce l’hanno fatta, è per la consapevolezza che un articolo di blog non può dare risposte o consolazione in questi casi. Questo articolo è molto breve per un argomento complesso e per forza di cose è necessario semplificare molto. Mi sono sentita di scriverlo a partire da domande e dubbi che mi sono stati rivolti nello sportello d’ascolto del Comune di Senigallia messo a disposizione delle vittime e dei loro familiari e in cui ho prestato servizio nei giorni successivi al dramma della Lanterna azzurra.

IL PRIMO CONSIGLIO: DISCONNETTERSI TEMPORANEAMENTE DAI SOCIAL E IGNORARE I MEDIA

Cari genitori dei ragazzi e ragazze che quella notte erano alla Lanterna azzurra, cercate, se potete, di non farvi confondere dai discorsi saccenti e vuoti che negli ultimi giorni si sono scatenati nei social e nei media, perché i vostri figli hanno bisogno di voi e della vostra lucidità. Disconnettetevi e salvaguardatevi.

Una delle reazioni più disfunzionali di una comunità dopo una tragedia è la veloce e irriflessiva ricerca di un capro espiatorio, qualcuno da incolpare additandolo e mettendolo alla gogna nei media, nei social, nei discorsi vari. Questo accade per un motivo preciso, che non ha a che fare con la cattiveria: tutti – ma proprio tutti – abbiamo paura di una casualità cieca che in qualunque momento ci può colpire in modo indiscriminato. Accusare i giovani che non hanno più i valori di una volta, piuttosto che genitori incapaci, piuttosto che cantanti con un linguaggio criticabile, ha l’unica funzione di tranquillizzare noi stessi rispetto alla possibilità che la stessa disgrazia possa capitare a noi o ai nostri cari. Si tratta di un meccanismo di difesa per cui la paura della morte viene gestita attraverso un illusorio quanto fragile senso di controllo sugli eventi: “A chi si comporta bene, non capitano queste cose. Io mi comporto bene, quindi…”

L’intera comunità va alla ricerca di un proprio modo di “sopravvivere” emotivamente a quanto accaduto. Le voci si moltiplicano, ognuno deve dire la sua, ci si arrabbia puntando il dito sui presunti responsabili. E si finisce, paradossalmente, per accanirsi sulle vittime, colpevoli di “essersela cercata”. Ora, è del tutto ovvio che delle responsabilità ci sono e andranno giustamente accertate, ma da chi ha il ruolo di farlo. Per il resto sono solo discorsi che nella migliore delle ipotesi sono vuoti, nebulosi, fuorvianti; nella peggiore delle ipotesi sono dannosi, tossici e di ostacolo alla guarigione dei vostri figli, oltre che vostra.

Non date peso ai giudizi sulle vostre scelte come educatori. Meglio: evitate proprio di entrare in contatto con certi discorsi. Liquidate velocemente chi sottolinea quanto fosse inopportuno lasciare partecipare i propri figli a quello spettacolo. Il problema quella notte non è stato un problema educativo, ma di gestione della sicurezza. Se fosse cosa buona o meno assecondare un figlio nella richiesta di partecipare a quella serata, con quel cantante, che canta quelle canzoni, con quei testi, a quell’orario di notte, è una domanda che non ci si deve fare ora. Cercate di avere le spalle alleggerite dai sensi di colpa, la mente libera, perché in questo momento ci dovete essere per i vostri figli, che hanno bisogno di voi anche se a parole vi dicono il contrario.

IL SECONDO CONSIGLIO: EVITARE DI DRAMMATIZZARE LA NORMALE REAZIONE AL TRAUMA

Per “normale reazione al trauma” si intende una o più delle seguenti difficoltà:

  • Isolamento, ritiro dalle normali attività, compresa la difficoltà di andare a scuola;
  • Stanchezza, poca energia nell’affrontare gli impegni quotidiani;
  • Ansia, agitazione, tendenza all’evitamento di situazioni particolari;
  • Immagini intrusive dell’evento traumatico;
  • Pianto;
  • Problemi di sonno, incubi;
  • Problemi alimentari;
  • Irritabilità e reazioni aggressive;
  • Difficoltà di concentrazione;
  • Mal di testa, di stomaco o altri problemi fisici che prima non c’erano;
  • Euforia eccessiva e inappropriata.

Queste reazioni, nel periodo a ridosso degli eventi, sono del tutto fisiologiche, vanno sicuramente monitorate con attenzione, ma senza aggiungere ansia all’ansia. La maggior parte di esse andranno incontro a remissione spontanea nelle settimane successive. Se questo non dovesse accadere e se i sintomi dovessero protrarsi per lungo tempo (ad es. per mesi) allora si è sempre in tempo per intervenire attraverso un aiuto di tipo professionale. In ogni caso, il ricordo dell’evento rimarrà e anche le emozioni di tristezza e dolore ad esso associato, ma nessuno dei sintomi sopra esposti è irreversibile e sviluppare una psicopatologia non è inevitabile. Quindi: sangue freddo, di fronte alle normali manifestazioni di malessere di chi ha visto morire un amico o ha temuto per la propria vita. Reagire drammatizzando, può portare il contesto familiare ad agire in modo scomposto e allarmato – invece di dare serenità e rassicurazione – paradossalmente peggiorando il quadro invece di alleviarlo.

Nelle primissime settimane è importante abbassare le aspettative e le richieste su un figlio, tollerare un pochino di irritabilità, abbassare le pretese scolastiche, soprattutto non pretendere che il ragazzo o la ragazza torni subito a stare bene come se non fosse successo niente. Rientrare nella normale routine quotidiana consente di gradualmente ricostruirsi un senso di controllo sulla propria vita e normalizzarla, ma bisogna anche accettare che è necessario un tempo per arrivare a questo. La pretesa assoluta che tutto torni come prima il più velocemente possibile rischia di far sentire un figlio non capito, inasprire le sue reazioni di rabbia o chiudersi ancora di più in se stesso, anche compiacendo un genitore mostrando una facciata da “tutto va bene”.

La “ricetta magica” non esiste e ognuno si confronta con un figlio diverso, con esigenze diverse, un suo vissuto e modalità proprie di affrontare le avversità. Ogni famiglia ha le risorse per fronteggiare le conseguenze di questo evento, basta tenere a mente le cose da evitare.

Evitare di passare un messaggio di fragilità – Dopo un evento traumatico, è possibile che venga profondamente intaccata e modificata la rappresentazione che una persona ha di se stessa, del mondo, della vita e del proprio futuro. È inevitabile, in questi casi, fare l’esperienza di vulnerabilità. Ma se di fronte a un pianto improvviso o un ripiegamento su se stesso, si passa alla persona che sta soffrendo il messaggio più o meno esplicito e preoccupato: “sei sensibile”, “sei troppo emotivo”, “sei fragile”, viene trasferita un’idea di vulnerabilità personale che il ragazzo o la ragazza potrebbe finire per fare proprio. Ma se io sono fragile o più sensibile degli altri, devo stare più attento degli altri e proverò ansia nell’affrontare altre sfide di vita rispetto alle quali mi sentirò inadeguato, inadatto, indifeso. Questa è l’anticamera di un disturbo d’ansia.

È molto più tutelante invece passare il messaggio che tutto il dolore, l’ansia, la confusione mentale, la sensazione di crollare sono normali e fisiologiche reazioni allo stress, a cui le persone reagiscono in modi diversi. Alcuni piangono, altri si tengono il dolore dentro, alcuni mostrano i propri stati d’animo, altri innalzano un muro, alcuni sfogano una grande rabbia, altri si paralizzano. Nessuno è più “forte” o più “fragile”. Tutti ci stanno male, ed è normale che sia così. E comunque è temporaneo.

Parallelamente, è bene trasmettere il senso di fiducia in se stessi e nella propria capacità di recupero. Il miglior antidoto contro i disturbi d’ansia è la profonda convinzione che, di fronte a questa difficoltà e alle difficoltà future, per quanto potremo starci male, sapremo tenere botta, mettendo a frutto le nostre capacità e risorse personali per venirne fuori.

IL TERZO CONSIGLIO: GARANTIRE AI RAGAZZI E RAGAZZE UNO SPAZIO PER PARLARE DELL’ACCADUTO E DI COME SI SENTONO

Potrebbe non essere sempre facile aprire un dialogo su quanto accaduto. Gli ostacoli potrebbero essere:

  • Il ragazzo o la ragazza prova ansia a dare voce alla sua esperienza, perché è un riportare alla mente le scene terribili a cui ha assistito. Quindi, come c’è da aspettarsi, tenderà a evitare certi discorsi;
  • I genitori potrebbero ritenere che più se ne parla, più il trauma resta in mente e quindi sarà difficile da “dimenticare”, per cui essi stessi evitano di parlarne;
  • I genitori potrebbero capire che è importante far parlare il figlio, ma sono spaventati da quello che ha da dire (capiamoci, quale genitore sarebbe a suo agio di fronte a questo?) e quest’ultimo potrebbe non voler pesare sulle persone che gli stanno intorno, non preoccuparle, fingendo che va tutto bene;
  • I genitori comprendono la necessità per il figlio di parlare e lo assillano di domande, come in un interrogatorio, ottenendo solo che si chiuda sempre di più.

Naturalmente, l’idea “meno se ne parla e prima se ne viene fuori”, è sbagliata. Al contrario raccontare, ri-raccontare più volte, dare voce alle proprie emozioni e trovare un contesto che accoglie senza giudizi e senza spaventarsi a propria volta, è la strada più dura ma anche più sicura per superare un trauma. Per i genitori e gli altri adulti di riferimento, la sfida è quella di riuscire a stare in presenza del dolore senza censurarlo (ad es, non dire: “Dài, non fare così”), senza cambiare discorso (ad es. non dire: “Non ci pensare, andiamo a fare shopping”), senza negare il problema (ad es. non dire: “Uno in gamba come te non può starci male”). Se non si trovano le parole, meglio restare in silenzio. La presenza anche silenziosa ma emotivamente partecipe è più di aiuto di quanto si creda. E non fa danni.

Senza forzare la discussione con domande insistenti, è utile attendere con pazienza che i ragazzi e le ragazze trovino il modo di aprirsi, seguire i discorsi che fanno, lasciando loro la possibilità di parlare delle proprie paure. E poi, offrire comprensione (ad es. “Capisco che ti sei spaventato. Mi sarei spaventato anch’io”, “È normale che ti senti confuso, è difficile credere a quello che è accaduto”, “Capisco che non ne vuoi parlare, anche se si vede che ci stai male. Quando ti senti di avere bisogno di sfogarti un po’, ci sarò”.) Può aiutare il creare occasioni di unione familiare, attività da fare insieme, più del solito, per aumentare la probabilità di comunicare.

Tenere a mente che non si comunica solo a parole. Il disagio si esprime anche attraverso comportamenti apparentemente strani o sbagliati. Ad esempio è facile che dietro un comportamento aggressivo possa esserci la paura di non essere più al sicuro o di perdere tutto. L’emozione espressa in modo più o meno esplicito va sempre riconosciuta e legittimata. Un genitore può semplicemente rispecchiarla, darle un nome.

Evitare di spaventare di più – Anche gli adulti potrebbero sentire il bisogno di essere a loro volta rassicurati che il proprio figlio non corra più un pericolo del genere. Si potrebbe essere tentati di pensare che spaventandolo per bene sui pericoli del mondo, riusciremo a tenerlo al sicuro. Potrebbero venir fuori affermazioni del tipo: “Hai visto che ti è successo? Così impari a darmi retta!” Insomma, potrebbe sembrare cosa buona usare quanto accaduto per rimetterlo “in riga”. Se è già una sfida educativa non da poco vedere i figli prendere la via di una crescente autonomia, accettare che una quota di rischio faccia parte della loro vita e che loro saranno nel mondo là fuori a cavarsela da soli, dopo la Lanterna azzurra, sarà ancora più difficile!

L’obiettivo è riuscire a parlare dell’accaduto senza far loro perdere fiducia nella vita e in quello che di buono riserva e riuscire a concedere la giusta autonomia senza trasmettere un’idea di un pericolo immane sempre presente e sempre in agguato. È necessario invece rassicurare, spiegare che anche se è accaduto, la probabilità che possa accadere di nuovo un evento simile tutto sommato è bassa e non c’è motivo di restare perennemente spaventati e allerta.

Evitare di moralizzare – La vita ha i suoi rischi. C’è sicuramente una parte di rischio controllabile attraverso comportamenti responsabili e scelte ragionevoli, e poi c’è la parte non controllabile, semplicemente dettata dal caso e connessa con l’essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Noi esseri umani abbiamo una paura terribile ad accettare il fatto che la nostra vita è precaria, è soggetta a rischi che non possono mai essere completamente azzerati e abbiamo un potere limitato nel porre sotto controllo i pericoli che ci circondano. Subdola è l’esigenza di cui si diceva, di auto-illudersi di avere un potere sugli eventi convincendoci che possiamo rendere il fato magnanimo con noi, semplicemente “facendo i bravi”. È una trappola, perché, oltre a essere un assunto falso, rischiamo di finire schiacciati da inutili sensi di colpa per gli eventi negativi, compresi quelli che a rigor di logica non sono per nulla conseguenza delle nostre scelte. Quando ci accade qualcosa di negativo, non ci domandiamo forse “perché proprio a me?”, “cos’ho fatto per meritarmi questo?”, come se il bene e il male che ci capita dovesse dipendere dalle nostre buone o cattive azioni.

Se si biasima la vittima per la tragedia che l’ha colpita (“te lo sei meritato”, “è questo quello che accade a chi ha perso i valori di una volta”, ecc.) non si fa altro che ostacolare il suo processo di recupero, lo si fa sentire inutilmente in colpa, meritevole del male ricevuto, si mina la sua autostima, cioè il bagaglio che dovrebbe permettergli di rimettersi in piedi e riprendere a camminare con le proprie gambe. Se un genitore è tentato di prendere questa strada, è per un intento protettivo, è chiaro, ma attenzione: trattandosi di adolescenti, questo messaggio potrebbe essere davvero deleterio.

Si deve fare i conti con la propria impotenza e le paure che ne scaturiscono? Bene. Molto meglio allora ricostruire il proprio senso di controllo coinvolgendosi in iniziative ed azioni di utilità sociale: volontariato, iniziative di sensibilizzazione a scuola, raccolta fondi per associazioni, andare a fare visita a chi rischia l’isolamento, ecc. In questo modo, oltre a rinforzare i legami all’interno di una comunità provata, si accresce la sensazione di avere un potere personale sul corso degli eventi, per quanto possibile e al di fuori di inutili auto-inganni. I genitori possono farlo e incoraggiare i propri ragazzi a farlo.

L’ULTIMO CONSIGLIO: ESSERE BENEVOLI VERSO SE STESSI COME GENITORI

Alcuni di voi genitori si stanno ripetendo senza sosta “ho sbagliato tutto”. Ve l’ho sentito dire spesso, in questi giorni. Il fatto stesso che un figlio ha rischiato la vita per una cosa che voi gli avete permesso di fare, basta a farvi sentire sbagliati e in colpa.

Fate un respiro, ritornate nel qui-e-ora, abbandonando l’elenco mentale di tutti gli errori educativi che pensate di aver fatto negli anni, e ripetete a voi stessi che siete gli unici genitori che vostro figlio avrà mai. Nessuno vi potrà mai sostituire. Vostro figlio ha voi e deve poter contare su di voi. Avete sempre fatto scelte pensando al meglio per lui/lei e così continuerete a fare. Siete genitori sufficientemente buoni.

Se proprio avete dubbi sulla vostra capacità di gestire la situazione in un momento difficile potete ricorrere al supporto di un professionista, ma ancora una volta questo non fa di voi degli incapaci.

Quanto sopra illustrato riguardo alle reazioni al trauma, potrebbe essere esteso anche a voi: potreste sperimentare ansia, agitazione, problemi di sonno, stanchezza e demotivazione, ecc. Vale per voi quanto detto per i vostri figli: sono reazioni normali che andranno scemando nel tempo. Prendetevi cura di voi stessi, invece di continuare a biasimarvi, ritagliatevi spazi di parola, per parlare dell’accaduto e di come vi sentite, con altri familiari o amici che sapete capaci di un ascolto non giudicante. Rientrate in una routine senza fretta, rispettando i vostri tempi. Ascoltatevi senza giudicarvi.

Non permettete a questo evento di demolire la fiducia in voi stessi, nelle risorse della vostra famiglia e dei vostri figli. Percorrete la strada, insieme a loro, che porta a riprendersi in mano la propria vita.

Continua a leggere

Il trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia

Il trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia

Periodi di stress possono modificare le abitudini legate al sonno e portare delle difficoltà prima assenti.

Ad esempio attraversare cambiamenti importanti o fasi critiche della vita può alterare degli equilibri e può portare con sé anche difficoltà di addormentamento oppure interruzioni del sonno, oppure risvegli precoci, oppure un sonno duraturo ma non ristoratore. La vera e propria insonnia si sviluppa quando queste iniziali difficoltà persistono nel tempo e alterano il normale funzionamento diurno.

Il trattamento per l’insonnia previsto all’interno della terapia cognitivo-comportamentale prevede tecniche precise inserite in un piano individualizzato, dal momento che le necessità soggettive di sonno possono variare da caso a caso. Attraverso il monitoraggio del sonno e delle abitudini ad esso collegate sarà possibile individuare i fattori responsabili del problema e sarà possibile sviluppare un corretto approccio al sonno. Accade sovente che le strategie utilizzate dalle persone per eliminare l’insonnia siano disfunzionali e contribuiscano invece a peggiorare il problema. Ecco quindi che una difficoltà che avrebbe potuto essere temporanea e pienamente giustificata da una fase di vita un po’ più dura, si tramuti in un disturbo cronico del sonno. Talvolta si finisce nel circolo vizioso per cui più ci si sforza di dormire e più ci si agita e si rimane svegli.

Le strategie funzionali sono sia sul piano cognitivo (schemi di pensiero e convinzioni), che sul piano comportamentale (abitudini sane, igiene del sonno). Agendo su entrambi i fronti il sonno può tornare sereno, duraturo e regolare.

A volte le difficoltà legate al sonno sono sintomi di un disturbo ad esempio di tipo ansioso o depressivo che è necessario approfondire.

Continua a leggere

I disturbi ossessivi

I disturbi ossessivi

Pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi affliggono circa il 2% della popolazione.

Il termine “ossessione” descrive la condizione di chi si sente ostacolato dal bisogno, vissuto come insopprimibile, di compiere determinate azioni o di astenersi da altre, oppure è costretto a trattenersi attraverso pensieri particolari che non è in grado di evitare. Anche se la persona è consapevole dell’insensatezza dei suoi atti e delle sue idee ossessive, non può fare a meno di riprodurli, in una sorta di rituale messo in atto per placare l’ansia. Il rituale diviene disturbo quando, resa evidente la sua inefficacia per contenere l’ansia, se non temporaneamente, diventa a sua volta, per il suo carattere coercitivo, motivo d’ansia.

Le ossessioni includono idee, pensieri, immagini, ricordi, ragionamenti spesso attraversati dal dubbio che si propongono alla coscienza in modo automatico e contro la volontà della persona, che non riesce a liberarsene. Sono intrusivi perché compaiono contro la volontà della persona e invasivi perché velocemente occupano tutti gli spazi della coscienza.

Sono spesso accompagnate dalle compulsioni, cioè azioni che la persona mette in atto per difendersi o neutralizzare le ossessioni. Il sollievo da esse fornito è provvisorio: le compulsioni in realtà finiscono per complicare la vita della persona, condizionata in modo sempre più pesante da una serie di cerimoniali che limitano la sua libertà e autonomia.

La terapia cognitivo-comportamentale dispone di tecniche che hanno dimostrato efficacia nel trattamento di questo tipo di disturbo, permettendo alla persona di sviluppare modalità alternative, efficaci e più funzionali di gestire l’ansia, in modo tale che l’abbandono dei rituali non sia vissuto come eccessivamente spaventoso. La diminuzione dei pensieri ossessivi aiuta a modificare i comportamenti disfunzionali e viceversa. Il disturbo risponde bene al trattamento farmacologico. È tuttavia dimostrato che il trattamento accompagnato dalla terapia cognitivo-comportamentale è molto più efficace nella riduzione della sintomatologia.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un consulto alla dott.ssa Elena Grilli, psicologa psicoterapeuta ad Ancona e Chiaravalle.

Altri disturbi d’ansia

Continua a leggere